Corriere della Sera, 2 ottobre 2024
Intervista a Renato Zero
Non c’è segnale più chiaro. Fra le circa 40 date del tour di «Autoritratto» (partito a primavera, si concluderà a metà novembre), Renato Zero era sul palco anche il giorno del suo compleanno. E quando domenica è scattata la mezzanotte al Forum di Assago (oggi l’ultima delle tre date milanesi), sono partiti i cori di auguri dei fan che hanno anticipato la festa dietro le quinte. «Canto tre ore abbondanti, non come alcuni che fanno un paio di canzoni e via... Magari guadagnerei di più, e sicuramente mi stancherei di meno, facendo tre stadi, ma arrivando dal teatro mi piace l’idea del cartellone pieno», dice il cantautore in visita al Corriere.
Continua anche a scrivere?
«Sempre. Adesso sto scrivendo un film, di cui sarò anche regista. Non sarà una pellicola autobiografica, ma non posso anticipare di più».
L’addio non l’ha considerato...
«Sarebbe frustrante, un bavaglio che ti mette seduto e in silenzio definitivamente. L’astrazione da questo mondo sarebbe pensabile se non avessi più nulla da dire. Ho visto artisti come Léo Ferré, Charles Aznavour, Nina Simone, Paul Anka calcare le scene col fiato corto, ma ho capito che si può rinunciare a un certo tipo di atteggiamento se si ha una coscienza generosa».
E dall’esame della sua che autoritratto esce?
«L’autoritratto non va fatto in un giorno preciso, ma è un diario che si snoda lungo momenti diversi. In questo trittico di concerti ho scelto non solo le hit, ma anche titoli altrettanto fondamentali. Senza arrivare a parlare di testi letterari, credo di aver descritto, come Zappa, Dylan o Cohen, movimenti e modificazioni della società. Ho messo a fuoco il tragitto esistenziale di Renato Zero ma anche quello degli italiani».
Cosa ha scoperto?
«Al Sud la mia presenza negli anni è stata carente perché non ci sono strutture. La musica e l’intrattenimento sembrano dare fastidio al processo evolutivo. Non c’è una censura scritta, ma silenziosamente c’è questo filtro, una volontà istituzionale di mantenere il Paese all’oscuro della cultura».
Lei è mai stato silenziato?
«Sì, ma sono ostinato... Nel 1979 misero i sigilli al tendone di Zerolandia: un abuso autoritario. Nel 1981, a una manifestazione al Castello Sforzesco di Milano cui partecipavo con altri artisti, morì una ragazza che aveva il torto di trovarsi nel posto sbagliato, nel momento sbagliato e di essere mia fan. Il giorno dopo i titoli erano “Renato Zero canta. Tiziana Canesi muore”. La mia carriera sarebbe potuta precipitare. Che rabbia... Per fortuna avevo seminato bene. Mi spiace che il sindaco di allora non perse la poltrona: avrebbe capito la gravità dell’accusa. E ancora i tre sindaci di Roma che in 14 anni non sono riusciti farmi realizzare Fonopoli, un centro per lo spettacolo».
Nel 1982 la Rai la volle, piume e paillettes comprese, per Fantastico. Si è mai sentito foglia di fico del potere?
«No, piuttosto penso che ci fu malafede. La Rai pensò che mi sarei fatto autogol, che avrei distrutto il mio castello di favole. Sbagliarono i loro calcoli. E dire che in “Viva la Rai” ero chiaro: “paghiamo allora questo abbonamento/... perché oramai/ questo cervello avrà un padrone lo sai».
Ha abbandonato da tempo piume e lustrini, ma anche i costumi felliniani, per un total black sul palco...
«A 74 anni l’opportunità di uno sfogo giovanile non è più attraverso costumi e trucchi, ma con la fame di libertà e di indipendenza. E la libertà oggi non è più così automatica».
Lei esorta i ragazzi a tornare in piazza... ma adesso li manganellano...
«Un certo potere usa la forza pubblica non come deterrente, ma come spauracchio. Il popolo è sovrano, ma se alla sovranità togli l’azione diventa un cartone animato. E lo dico da figlio di un poliziotto. Ci vorrebbe un governo con un’identità reale e non fittizia».
Riceve ancora insulti omofobi?
«Non più. Quelli degli esordi erano incitamenti: se superi quella volgare certificazione farai strada. Allora mi fermavo a parlare con questi ragazzi di borgata. Capivano che volevamo la stessa libertà e alla fine mi dicevano “ecco il nostro numero di telefono, se qualcuno te dà fastidio chiamace”».
Vorrebbe un riconoscimento per aver aperto il dibattito su certe battaglie?
«Non una medaglia, ma almeno che si riconoscesse che quel coraggio è stato difficile, amaro ma alla fine efficace perché ha contaminato molti. Una sveglia l’ha prodotta».