Corriere della Sera, 2 ottobre 2024
Nico Piro, inviato di guerra del Tg3 con disabilità
Miracolosamente scampato a bombe, naufragi, rivolte di piazza, virus letali o guerriglieri col kalašnikov, l’inviato di guerra Nico Piro ha gli incubi al ricordo dei semafori sulla Suschevsky Val, lo stradone a più corsie dove stava il suo hotel a Mosca: «Quando il timer del rosso pedonale arriva a metà del tempo previsto, si accende anche il rosso per le auto nella corsia più a destra, quella vicina al marciapiede dal quale dovrebbe cominciare il mio attraversamento. Mentre quelle sulle altre due continuano a marciare, le auto sulla terza corsia si fermano. All’inizio pensavo fosse un’ottima occasione per avviarsi e guadagnare un po’ dell’attraversamento, poi dopo molta osservazione ho scoperto che a circa venti secondi dalla fine del rosso pedonale, riprende il verde per le auto della corsia di destra per poi fermarsi a cinque secondi dal verde pedonale. Insomma un rompicapo la cui unica soluzione è: restare fermi aspettando un bel verde pedonale». Macché: «Questo semaforo su Ulitsa Giliarovskogo resta con il verde pedonale attivo per soli quindici secondi. Se è abbastanza per la russa o il russo medio, per me è davvero poco. Quasi sempre mi ritrovo ancora metà dell’ultima corsia (su tre) da percorrere quando scatta il rosso pedonale e le macchine ripartono, prima che io possa arrivare al sicuro sul marciapiede». Peggio ancora «quando nevica perché sul versante delle strisce da cui parto, sullo scivolo disabili si accumula il ghiaccio...». La morte in faccia, con difficoltà motorie.
È lì che capisci, leggendo Uno strano dono. Storia di un giornalista di guerra che ha imparato a far pace con la disabilità edito da Solferino, quanto sia stato complicato per l’inviato Rai del Tg3 autore di tanti reportage dai fronti più caldi del pianeta non solo affrontare terreni stravolti dalle esplosioni ma perfino prendere la metro: «Impari a restare due o tre metri più indietro rispetto al margine della banchina. All’apparenza è uno svantaggio perché devi percorrere più metri fino all’ingresso delle vetture; invece conquisti l’equivalente dell’elevazione di quota in battaglia, riesci ad avere una visione completa della carrozza di fronte a te, dove si è fermata e quindi dove sono le porte...».
Eppure, nonostante la problematica spina bifida (come la pittrice messicana Frida Kahlo), una gamba sei centimetri più corta dell’altra (come il leggendario re del dribbling brasiliano Garrincha «ma per me non è stata una fortuna») e varie grane fisiche collegate, Nico Piro racconta che col tempo ha imparato a considerare tutto quasi «un dono più che un limite. Uno strano dono». E si è via via buttato in imprese che parevano impossibili. Come quando scese a 30 metri di profondità per risolvere il mistero di una sedia scolastica finita chissà come in fondo al mare. O s’incaponì per salire su una nave in missione di soccorso ai naufraghi nel Mediterraneo e per convincere la capitana che la sua «condition» non sarebbe stata d’intralcio nei momenti di soccorso ai migranti («Non è questa barca a ballare. Per me balla sempre tutto, la terra ferma va in rollio. Ci son abituato») si fece sbatacchiare per un’esercitazione su un gommone lanciato a folle velocità tra i marosi: «Test stracciato. Sono felice anche se mi resta una domanda: perché per fare cose normali devo dare dimostrazioni straordinarie?».
Vita dura. Fin da quando, bambino a Salerno, costretto a fare i conti con quella disabilità vistosa («Mamma mi aveva chiesto di camminare dall’ombrellone al mare con un calzino, per giunta bianco, perché era un modo per tenere sotto controllo una ferita che a volte perdeva sangue, a volte pus») e ricoveri dentro e fuori dagli ospedali reagì appassionandosi alla durezza del football americano: «Tra scaricatori del mercato e studenti oversize di ingegneria, non riuscirò mai a superare lo step del flag-football ma imparo che se ti colpiscono e soffri da morire devi sorridere». Va da sé che, scampato all’annegamento dopo un volo con la moto in un fiume d’inverno e deciso a fare il cronista, non lo scoraggiò la lunga gavetta e men che meno l’impatto finale con la Rai, le sue aperture, i suoi dubbi. Compresa quella frase infelice colta di sbieco al bar: «Nico vuole fare l’inviato di guerra. Ma se non si regge nemmeno in piedi...».
Avanti, sempre avanti. Con Gino Strada a Freetown, tra i contagiati dall’Ebola: «Era necessario indossare una tenuta stagna capace di farti perdere, alle temperature della Sierra Leone, fino a tre chili di peso in un’ora. La tuta veniva completata da un paio di, per me devastanti, stivali in gomma. Calzature che rendevano difficile camminare alle persone normali, figurarsi a me». Ancora col compianto fondatore di Emergency nel suo ospedale a Khartum. E la grande passione, umana e professionale: l’Afghanistan. Con la firma obbligata da mettere sul modulo embed form a Bagram: «La dichiarazione di perfetta forma fisica e capacità di correre mi precipita in un panico che non posso dare a vedere. Respiro, sospiro, rifletto. È una bugia talmente palese che mi può mettere nei guai, però se dovessi essere ferito o morire la mia firma sotto questa falsa dichiarazione metterebbe le forze armate americane al sicuro da qualsiasi causa della mia famiglia...».
Eppure è proprio lì, sulle montagne afghane così belle, aspre e pericolose dove perfino gli «eroi» dei ribelli islamici, il Mullah Omar e Dadullah Akhund erano uno senza un occhio e l’altro senza una gamba, Piro trova un rispetto per la disabilità ignoto in Paesi in teoria più aperti, più colti, più ossequiosi (formalmente) sui diritti: «L’abitudine a vedere mutilati, feriti che nessuno potrà mai guarire, ha reso la società afghana profondamente accogliente verso i disabili. Dove non ci sono infrastrutture e ausili intervengono le persone, per esempio quando qualcuno su una sedia a rotelle incontra una scalinata...». Una lezione per tanti Paesi civili. Come una lezione è il lungo racconto dell’inviato di guerra dalle gambe fragili ma dal cuore indomito: mai arrendersi. Mai.