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 2024  ottobre 01 Martedì calendario

Emily in Paris e l’Italia dei luoghi comuni

La serie Emily in Paris, distribuita in esclusiva da Netflix, è arrivata già alla sua quarta stagione (e ci sarà pure la quinta) perché mostra in tutta la sua ingenuità come il mondo, e in particolare gli americani, vedono la Francia: Parigi, la Tour Eiffel, le luci di notte, il buon cibo, gli chef, la moda, il vino, le cantine, i profumi, la bella vita. Naturalmente è poco apprezzata in Francia, perché parla solo dei cliché del paese. Ma all’estero funziona tantissimo. Per questo diventa interessante analizzare le ultime puntate della quarta stagione, in cui Emily (interpretata da Lily Collins), dopo una vacanza a Roma, viene nominata (spoiler) responsabile della filiale italiana della agenzia pubblicitaria parigina in cui lavora. Col rischio, quindi, che si passi da Emily in Paris a Emily in Rome. Ma sti americani come ci vedono? Cibo, moda, vino, profumi e bella vita ci sono tutti, anche perché «i francesi sono fondamentalmente degli italiani, ma di cattivo umore». L’innamorato italiano di Emily si chiama Marcello (eddai, La dolce vita), e girano per le strade di Roma con una Vespa, lei vestita alla Audrey Hepburn (Vacanze romane). «Voi italiani siete particolarmente calorosi», sentenzia Emily, mentre Marcello, nello spiegare il colpo di cannone dal Gianicolo, osserva che «a noi italiani non interessa particolarmente essere in orario». Le gite fuori porta, in deliziosi borghi dove ogni uscio di casa ha più fiori e piante di un fioraio, e poi le feste in piazza o le capatine al ristorante sono sempre accompagnate da musichetta siciliana o pizzica pugliese, così, senza motivo. La capa di Emily, interpretata da Philipine Leroy-Beaulieu, ha un amante a Roma impersonato da Raoul Bova. Una imprenditrice italiana nel campo del fashion (interpretata da Anna Galiena) confessa: «Non pago le tasse da sei anni». Nei dialoghi tra italiani, peraltro, domina la parola che inizia per c e con due z in mezzo. Solo una cosa non ho capito: davvero era necessario mascherare il nome di un famoso brand italiano chiamandolo Bavazza?