la Repubblica, 1 ottobre 2024
Storia dei Lego
Nell’antiquato ufficetto aziendale, in quel giorno di gennaio del 1949, la discussione durava da ore, accanita. I quattro figli erano scettici, non volevano abbandonare la solida, tradizionale produzione di giocattoli di legno. Ma a un certo punto il patriarca Ole Kirk zittì tutti, si alzò in piedi e sentenziò: «Io ho chiesto a Dio, e io ho fede in quei mattoncini!». Era deciso. La vecchia fabbrica si sarebbe convertita alla plastica. Il consiglio divino si rivelò azzeccato: nel giro di pochi anni “quei mattoncini” diventarono il giocattolo del secolo, il più amato del Novecento. Tra saga familiare, avventura imprenditoriale e interventi soprannaturali, è una storia avvincente e singolare quella che Jens Andersen, esperto di biografie, racconta nelle 400 pagine di Lego (Salani), epica di un successo imprenditoriale planetario che è stato anche una chiave simbolica del ’900. Una specie di parabola evangelica piena delle contraddizioni di un secolo costruttore e distruttore, razionalista e mistico, contabile e idealista.Dio aveva detto sì. Ole Kirk Christiansen era così, un devoto pratico. Diceva: «Prego sempre, prego che arrivino gli ordini, prego di riuscire a fabbricare i prodotti e prego di essere pagato». Ragazzino di brughiera, nel 1915 aveva comprato una falegnameria a Billund, paesotto microscopico al centro della Danimarca, cento anime attorno a una stazione (oggi Billund ha un aeroporto). Dalla carpenteria per l’edilizia si era specializzato in oggetti di legno domestici, e poi, via via, in giocattoli intagliati e dipinti a mano. Con gli yo-yo accumulò anzi un patrimonio. Ma dopo la guerra il legno di faggio era introvabile e carissimo. C’erano però quei nuovi materiali sintetici, come la bachelite. Ci si poteva fidare? Kirk nel 1948 comprò una pressa e cominciò a sfornare per prova oggettini colorati, sonagli per neonati, figurine di animali. Modesto successo di mercato. Ma il commerciante che gli vendeva i macchinari un giorno tolse di tasca un oggettino strano: «Sapete, in Inghilterra fanno questa roba qui». Era una scatoletta colorata con bottoncini sul lato superiore, che si incastravano sul fondo cavo di un altro mattoncino. Un gioco di costruzioni, ma innovativo. Sì, l’idea che fece la fortuna di Lego non era originale, e per molti anni Ole Kirk sentì un peso sulla coscienza, avendo copiato dalla britannica Kiddicraft, che non aveva brevettato l’invenzione anche in Danimarca. In verità, la prima produzione non sembrò un buon affare. I clienti si lamentavano: «Non attaccano! Le costruzioni cadono!». Per questo i figli di Ole erano così incerti. Ma il patriarca aveva cominciato costruendo le cose con le mani, e trovò la soluzione: inserire nel cavo del mattoncino un sistema di barrette e tubicini che rendevano gli incastri solidissimi, anche se smontabili con due dita. Fu questo, perfezionato genialmente, il mattoncino brevettato il 28 gennaio 1958 che conquistò il pianeta.Lego, che era già il marchio aziendale, è la contrazione di Leg Godt, cioè “gioca bene”: si accorsero dopo, i dinasti danesi, che in latino quella parola significa “metto assieme, unisco”. E quello era il segreto, il principio dorato della fortuna futura. Costruire.Erano anni di furibonde ricostruzioni, dalle macerie dei bombardamenti. Nonostante il suo aspetto brutalista, il mattoncino capostipite (quello a otto bottoncini) poteva essere incastrato col suo simile in 24 modi diversi. Davvero lecorbusieriano nello spirito. C’era, in quei pezzettini di plastica così umili, l’utopia di un mondo scomponibile e ricomponibile in moduli, riducibile a unità semplici, un mondo misurabile in multipli, computazionale, già pronto per l’informatica. Più che un gioco, una matrice. Cominciarono a chiamarlo “Sistema Lego”, proprio come si dice “sistema capitalista”. Del resto, l’ideologia era analoga: più possiedi (pezzi), più cose puoi fare; l’accumulazione come virtù e potenza, la scatola coi mattoncini alla rinfusa come un patrimonio ereditabile: passava di padre in figlio, continuando a replicare il mondo, vecchio e nuovo, il carretto e l’astronave. Ancora oggi, i dirigenti Lego amano girare il mondo con un mattoncino del 1958 in tasca, per dimostrare a tutti che s’incastra ancora con quelli dell’ultima generazione.Il cuore concettuale era dunque questo: puoi costruire la complessità con la semplicità. Poi però i pezzi diventarono via via più specializzati, e sempre meno versatili, fino al puntoda mangiarsi il concetto dell’intercambiabilità modulare. Le scatole contenevano pezzi che potevano essere usati solo per costruire quello specifico modellino. E per farlo, c’erano le istruzioni. I pedagogisti nordici insorsero: «Questi nuovi modelli dicono ai bambini come devono giocare, e questa è una vergogna!». E poi, c’era la questione di genere. Le bambine non amavano il mondo Lego, i sondaggi spiegarono perché: sono solo oggetti, non c’è vita. Allora nel 1970 nacque l’omino Lego, ma così il mondo dell’informe che crea infinite forme diventava un mondo di forme premeditate, un mondo finito e limitato.Troppo tardi per tornare allo spirito originario: la concorrenza dei videogiochi si faceva sentire. Lego cercò all’opposto il balzo nel futuribile: alla fine degli anni Ottanta si alleò nientemeno che col Mit, per creare robot Lego programmabili. A tutt’oggi, la sfida sembra reggere.Un secolo dopo i trucioli di Billund, è una azienda mondiale, 90 milioni di scatole vendute ogni anno, uno dei marchi commerciali più conosciuti del pianeta. Ma dopo tutto va riconosciuto a Ole Kirk, e alle tre generazioni dei suoi tenaci eredi, il merito di aver racchiuso in un parallelepipedo di plastica colorata la parabola ideologica di un secolo affascinato dalle utopie e ossessionato dai dividendi.