Corriere della Sera, 1 ottobre 2024
All’estero grandi mostre, da noi solo «mostriciattole»
Non si tratta di esterofilia. Basta recarsi a Parigi, per misurare le evidenti differenze tra il sistema delle mostre organizzate in Italia e il modello francese. Un palinsesto di esposizioni di alto livello – al Pompidou (il surrealismo), al Museo Picasso (Picasso iconografo), alla Fondazione Vuitton (le retrospettive su Matisse e su Kelly) – progettate con largo anticipo, curate da studiosi con una solida esperienza, esito di anni di ricerche, rigorose e, insieme, sorprendenti, con quadri provenienti da importanti collezioni internazionali. Insomma, mostre «definitive», imperdibili, destinate a entrare negli exhibition studies.
Invece, da anni, con rare eccezioni, le nostre città sono invase da «mostriciattole» (per dirla con Federico Zeri) prodotte per le amministrazioni pubbliche da società «for profit», che, nascondendosi dietro l’alibi pedagogico dell’alfabetizzazione visiva, ricorrono sempre agli stessi artifici: si ripropongono le solite celebrities, senza svelarne lati poco indagati, presentando opere per lo più provenienti da un’unica fonte. Un modo per abdicare alla responsabilità della critica. Per rinunciare alle incertezze insite in ogni campagna prestiti. E per rimuovere la lezione di coloro che hanno insegnato a «fare-mostre»: tra gli altri, Longhi, Lea Vergine, Bonito Oliva, Celant, Settis. L’esito di questa degenerazione culturale: la proliferazione di eventi prêt-à-porter condannati a essere consumati nell’indifferenza, ordinati da curatori conniventi e privi di serietà.
È davvero incolmabile la distanza tra una «mostra grande» e una «grande mostra».