Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  ottobre 01 Martedì calendario

Intervista a Vittorio Feltri



Vittorio Feltri ha appena pubblicato per Mondadori Il latino lingua immortale. Lo ha scritto nell’ultimo anno, andando a memoria e litigando ogni giorno con il suo iPad. «È lo strumento che mi spedirà all’inferno, viste tutte le bestemmie che mi ha fatto lanciare», chiosa. E aggiunge: «È un modo di dire, precisalo sennò succede un altro finimondo». In effetti, è fresco il caso dell’infelice uscita sui ciclisti a Milano («Mi piacciono solo quando vengono investiti»). Anche se lui resiste: «Ma io parlavo delle piste ciclabili, che sono pericolose, ci vuole molto a capirlo? L’anno scorso sono stati investiti 954 ciclisti, lo ha ricordato pure Salvatore Merlo sul Foglio». In questa conversazione, dopo un pranzo casalingo con la moglie Enoe Bonfanti a un capo del tavolo e lui all’altro, giocheremo con il latino e con i suoi ricordi.



Partiamo dal suo «alter ego», Maurizio Crozza.
«Mi diverte moltissimo, perché è spiritoso. Però mi attribuisce frasi e concetti che non solo non ho mai espresso, ma neanche pensato».

«De gustibus non disputandum est». Vale anche per i suoi titoli?
«Possono piacere o non piacere, ma non sono certo un cronista dell’ultima ora».

Mai pentito di nessuno?
«Pentito? Mi pento per altre cose che riguardano la mia vita personale, ma nel lavoro ho sempre dato il massimo».

Per la «patata bollente» riferita alla Raggi fu condannato a una multa di 11 mila euro.
«Intanto io non pago mai nulla, paga l’editore. E quella sentenza mostra solo il livello della nostra magistratura, che non conosce neanche la Treccani, perché patata bollente significa questione scottante».

«Per aspera ad astra». Il suo momento più difficile?
«Quando a 14 anni, dopo la terza media, ho dovuto cominciare a lavorare. Ero rimasto orfano a 6, mia madre doveva mantenere tre figli e il suo lavoro non bastava».

Le stelle, poi, le ha raggiunte. A chi è più grato?
«Monsignor Angelo Meli è stato determinante. Era professore di Eloquenza al seminario di Bergamo. Ogni pomeriggio andavo da lui, mi parlava in bergamasco o in latino, mi ha insegnato tutto».

Come lo conobbe?
«In biblioteca, dove andavo a studiare da solo senza riuscire a combinare molto. Si incuriosì e cominciò a darmi lezioni martellanti, che mi sono state utilissime e mi servirebbero anche oggi: era di una saggezza infinita. Io non sono cattolico, non credo in Dio, non credo in niente, però credo che monsignor Angelo Meli sia stato per me meglio di un padre. La notizia della sua morte mi ha procurato un dolore violento che non mi ha mai abbandonato. Con lui vicino mi sentivo più sicuro».

Si sente fortunato?
«Sì, anche quando sono stato assunto al Corriere, dove non conoscevo nessuno: mi aveva voluto Angelo Rizzoli. Quando in macchina aprii la busta con il contratto e lessi che lo stipendio era di un milione di lire, chiamai mia moglie: mi disse di tornare a casa che avrebbe controllato lei».


È sposato con Enoe Bonfanti da 57 anni. Una vostra immagine felice?
«Io tutte le sere quando torno a casa sono felice di vederla e non potrei stare con nessun altro. Provo per lei una grande tenerezza e una grande gratitudine per avermi tolto dal guado quando ne avevo più bisogno. La mia prima moglie è morta dopo il parto, lasciandomi due gemelle. E la Bonfanti mi è venuta in soccorso. Questo aiuto fondamentale non me lo potrò mai dimenticare, perché ero veramente in una situazione di disperazione. Grazie alla Bonfanti ci siamo tutti».


Dopo Laura e Saba, le gemelle, sono arrivati Mattia e Fiorenza.
«E poi c’è Paolo, figlio di mia cognata, che non ho adottato legalmente, ma è come se fosse un figlio».

Scelga una immagine felice con i suoi figli.
«Quando l’infermiera mi ha messo tra le braccia Fiorenza e lei mi ha sorriso».

Per Fiorenza avevate pensato all’aborto.
«Ero contrario, però capivo che per la madre sarebbe stato difficile continuare a lavorare. Fissai l’appuntamento in Svizzera. Poi mi sono rifiutato perché l’aborto è un infanticidio non punibile».

L’aborto è un diritto, una donna deve poter scegliere.
«Ma che scelta è? L’aborto non è un diritto, è una concessione cinica dello Stato».

Torniamo al latino. «Veni, vidi, vici» si addice al mestiere di inviato. Quale servizio le ha dato più soddisfazione?
«Il più importante: quello su Enzo Tortora. Lì ho capito che i magistrati non conoscono il latino, altrimenti avrebbero saputo il significato di in dubio pro reo».

«Audentes fortuna iuvat».
«L’audacia non mi è mai mancata. Ho sempre osato, però ragionandoci prima. Forse la cosa più audace è stata la fondazione di Libero: non avevo una lira. Poi ho venduto la baracca agli Angelucci e ci ho fatto un sacco di soldi, se non è volgare dirlo».

Quando parla di «Aurea mediocritas» fa riferimento a Giulio Andreotti.
«Non brillava per fantasia, ma era un navigatore perfetto. Quando ero direttore dell’Europeo, lo accusammo per una storia delle Brigate Rosse. Lui si incavolò molto e telefonò al presidente della Rizzoli, Giorgio Fattori. Dovetti andare a Roma. Quando arrivai, mi fece aspettare tre minuti, poi mi ricevette, ma non disse nulla sull’incidente: mi chiese della mia famiglia, dei figli, fu una conversazione fra amici dopo la quale non scrissi più una parola contro di lui».

E nei processi lo difese.
«Me lo chiese lui a casa di Cirino Pomicino, sull’Appia Antica, e gli dissi di sì perché ero convinto che fosse giusto. Prima di salutarci gli domandai perché lo avesse domandato a me. E lui: preferisco un nemico a un amico falso».

Oggi chi rappresenta la «mediocritas aurea»?
«Mi metti in imbarazzo perché non ho molta stima per i politici. Dovrei pensarci. Ma pensare è una fatica».

In passato ha detto di aver diversificato con le donne. Qual era il suo «alibi»?
«Il lavoro. Cos’altro avrei potuto inventarmi?».



Sua moglie è una santa.
«È anche una gran rompiballe».


Chi sono i suoi amici?
«Melania Rizzoli è la mia più grande amica da anni. Trovo che sia una persona intelligente, un medico formidabile e mi sono affezionato a lei come spero lei a me».

Suona ancora il pianoforte?
«No, ho perso qualsiasi abilità con le dita e con la testa».

La sua canzone preferita?
«I’ te vurria vasà. Parlo bene il napoletano. Ho imparato lo spagnolo in macchina da Bergamo a Milano, mentre l’inglese è l’unica lingua che non ho voluto imparare».


È sempre elegantissimo. Merito del diploma da vetrinista?
«Lì ho raffinato, ma fin da bambino ci tenevo. Il diploma mi ha aiutato con le prime pagine, che sono come le vetrine per attirare i clienti».

Il suo maestro?
«Nino Nutrizio, direttore della Notte, che aveva importato il gusto dei tabloid».

Ha ancora i cavalli?
«Solo uno, ormai vecchio
, lo tengo perché ci sono affezionato: aveva i denti ammalati e non mangiava più, allora ho trovato un dentista che gli ha rifatto la bocca. Due li ho regalati al carcere di Bollate. Un altro l’ho dovuto abbattere: prima dell’iniezione ha allungato una zampa e me l’ha messa in mano, per salutarmi».

Lo sa che molti la considerano un vecchio rimbambito?
«Di me possono dire quello che vogliono, resto indifferente. Gli insulti arrivano dai comunisti e affini. Ma per strada tutti mi fermano e vogliono una foto con me».

Fino a quando lavorerà?
«Smetterò quando mi accorgerò che non capisco più niente. Quel giorno si sta avvicinando. E comunque se guadagnaste ciò che guadagno io, non vorreste smettere».

Ha paura di morire?
«No. Ho il terrore di soffrire. Certo, se penso che morirò tra 10 minuti un po’ mi dispiace».

Un momento felice solo «suo»?
«Quando ho discusso la tesi in Scienze politiche. Avevo già 40 anni, presi il massimo. Mi sono commosso».

Non abbiamo detto niente di Ciccio.
«Sono sempre stato innamorato dei gatti, ma Ciccio è quello che preferisco. Ho allevato perfino un topolino».


Va più d’accordo con gli animali che con gli umani.
«Non c’è dubbio».