Corriere della Sera, 1 ottobre 2024
Il film sul giovane Trump che Trump non ama
Uscirà prima delle elezioni americane, The Apprentice, il film sull’infanzia professionale e le prime esperienze di Donald Trump, imprenditore, showman, politico ormai di lungo corso.
Il film ha incontrato varie difficoltà, come è immaginabile. Steven Cheung, il portavoce di Trump, al proposito ha sobriamente dichiarato: «Questo film è pura diffamazione, non dovrebbe vedere la luce e non merita neanche di stare nella sezione dvd a metà prezzo di un videonoleggio prossimo alla chiusura». Dal che si può dedurre che, al candidato alla presidenza degli Usa, The Apprentice non deve essere risultato gradito.
In realtà il film è la storia della formazione di un rampollo ambizioso che comincia con l’ingrato compito di riscuotere gli affitti degli inquilini delle case di proprietà del padre e finisce con il costruire la Trump Tower sulla quinta strada e con l’occupare un maestoso edificio bianco al 1600 di Pennsylvania Avenue. Ci deve essere del talento, se le cose sono andate così. Però anche qualcosa di più. Il film ci aiuta a capire quanto debbano essere state importanti, nel giovane Donald, le lezioni di esperienza, di vita, di concezione del mondo di due figure: un padre duro come la pietra, un imprenditore che si è fatto da sé, e soprattutto l’incontro con un personaggio che nel film appare insieme mefistofelico e dolente, quello dell’avvocato Roy Cohn. Un legale radiato dall’albo degli avvocati della Grande Mela che, in realtà, era un maestro nei rapporti con la politica e i potenti e che per ottenere risultati non esitava a spiare, ricattare, condizionare chiunque si trovasse sul cammino suo e dei suoi assistiti. Trump, il giovane Trump, diventa, quando aveva 27 anni, uno di loro.
E impara. Dotato di due doti non comuni, l’ambizione e il coraggio, il giovane che sarà magnate passa rapidamente dal ricevere insulti e secchiate da parte degli inquilini dei sobborghi newyorchesi alla cascata di marmo rosa della torre che modestamente intitola a sé medesimo.
Roy Cohn lo prende nella sua scuderia. Un tipo da spiaggia, l’avvocato. Ha contribuito alla condanna a morte dei coniugi Rosenberg forse spingendo un testimone a rivelare, mentendo, di aver consegnato ai due dei documenti classificati. Per questa benemerenza viene raccomandato da quel galantuomo di Edgar Hoover al senatore Joseph Mc Carthy per la sua famigerata commissione, quella che arrivò a mettere sotto inchiesta per attività antiamericane persino Charlot, nella vita Charlie Chaplin.
Anche allora si scatenò la campagna contro Hollywood, contro il mainstream, contro le élites che complottavano per consegnare ai sovietici la bandiera a stelle e strisce. Sempre il portavoce di Trump dirà che The Apprentice è «l’interferenza elettorale da parte delle élites di Hollywood».
Cohn, interpretato magnificamente da Jeremy Strong, morirà di Aids, una malattia negata, «ho un tumore al fegato», per la vergogna sociale che essa comportava. Morirà dimenticato, lui che era stato consulente di Nixon e di Reagan. Morirà dopo aver insegnato a Trump le tre regole fondamentali del successo. Regole che, alla fine del film, l’imprenditore ribadisce, come fossero sue, a uno scrittore pagato per redigere la sua biografia.
Chi vedrà il film si renderà conto che a questi principi Trump non ha mai smesso di essere legato. Come al suo inventore, tanto da invocare il nome del suo avvocato, morto nel 1986, quando la magistratura avvierà un’inchiesta sulle interferenze russe che avrebbero favorito la sua elezione nel 2016.
Il primo principio di Cohn è «Attacca, attacca, attacca», aggredisci l’uomo, non la palla.
Il secondo è «Non ammettere mai nulla, nega sempre tutto».
Il terzo è «Proclama sempre di aver vinto, non ammettere mai la sconfitta».
Fermiamoci su quest’ultimo, riassunto in una frase di Cohn: «Non conta nulla, a parte vincere». Lo troviamo, realizzato, nella occupazione del Campidoglio di Washington dopo la vittoria di Biden e nella frase «Se non vinco sarà un bagno di sangue» con la quale Trump ha gettato un’ombra minacciosa sulla democrazia americana.
Trump ha evidentemente talento, lo aveva fin da ragazzo. Talento accompagnato, come spesso accade, da una ambizione esagerata. In uno dei momenti del film il giovane Donald, che Cohn chiama Danny Boy, dice a un suo collaboratore che, se perdesse tutto il suo patrimonio, si candiderebbe a presidente degli Stati Uniti. Cosa accaduta, otto anni fa. Per la cronaca di quell’esperienza vale il magnifico e agghiacciante libro di Bob Woodward «Paura».
Il film, nel suo cruento raccontare l’essenzialità del potere e del denaro, finisce col trascendere Trump e diventa, come ha dichiarato il regista Ali Abbasi: «Un film sul sistema e su come funziona. E il modo in cui è costruito il sistema. E il modo in cui l’energia attraversa il sistema».
Quel sistema che ha costruito figure come Trump. E altri, in questo autunno delle fragili democrazie. Con il paradosso, tragico, che i prodotti perfetti di quel sistema sono apparsi e appaiono come i più feroci antisistema. È il grande inganno di questi Anni Venti.
Il primo martedì di novembre ci dirà se le tre regole di Roy Cohn possono ancora ingannare e prevalere.