Corriere della Sera, 30 settembre 2024
Intervista a Gianni Amelio, regista
Gianni Amelio ha compiuto 80 anni a gennaio. Non bisognerebbe ricordarglielo («non li voglio e non me li sento. Le premure dei familiari mi esasperano: non portare i pesi, non portare la spesa...»). Da settimane, attraversa instancabilmente l’Italia per presentare il suo nuovo film, Campo di battaglia, storia di due medici durante la prima guerra mondiale. Ovunque, parla di guerra e di uomini mandati a morire, ieri come oggi, senza un perché che abbia senso. Se gli chiedi da che nocciolo emotivo nasce il film, risponde: «Dall’attualità. Io, se penso a Gaza, all’Ucraina, al Mediterraneo dove muoiono i fuggiaschi, non riesco a pensare che non mi riguarda, io mi sento in guerra». Spiega che il suo non è un film «di guerra», ma «sulla guerra»: «Guardare una battaglia come se fosse uno spettacolo è moralmente inaccettabile».
Ne ha mai parlato con qualche collega che sui film di guerra ha fatto fortuna?
«Mi è capitato solo con uno, grandissimo: Samuel Fuller. E ammise che era d’accordo».
In Campo di battaglia, ci sono due medici, uno, interpretato da Gabriel Montesi, rispedisce i soldati al fronte pure malati o mutilati perché devono servire la patria; l’altro, Alessandro Borghi, li aiuta a prendere infezioni o arriva a mutilarli, pur di farli tornare a casa. Ognuno, a suo modo, ha ragione.
«Uno segue la logica del dovere, l’idea che alla guerra ci si sottrae solo da vigliacchi; l’altro capisce che in guerra si va a morte sicura e, pur rischiando, cerca di salvare vite anche togliendo a quelle vite qualcosa. Tant’è che un soldato non accetta, dice: perché dovrei vivere da sciancato? I due dottori non sono catalogabili in buoni e cattivi perché è cattiva la guerra e la sua assurdità comporta che nessuno può avere ragione».
Lei aveva 20 mesi quando finiva la seconda guerra mondiale. Qual è il suo primo ricordo?
«Di bellezza, serenità, natura, in un paesino, Magisano, in Calabria. Sono stato un bambino felice fra bambini felici e affamati. Una volta ho chiesto a mia madre: chi sono i poveri? Mi ha risposto: ma noi, io, tu, nonna, zio Ciccio. Ho pensato: allora i poveri non stanno così male. Nonostante la miseria, c’era voglia di fare, c’era un’umanità coesa. E il Sud e la campagna davano la possibilità di non morire di fame, perché ci si prendeva cura degli altri. Erano tempi di positività: avevamo superato il rischio io di non nascere e mio padre e mia madre di morire».
Suo padre era emigrato in Argentina e lei lo conoscerà solo a 14 anni. Non le è pesato crescere senza?
«I padri possono pesare con l’assenza, ma sono dolori quando pesano con la presenza».
Meglio che non ci sia stato?
«Sono cresciuto libero, ho avuto una madre splendida, tosta di carattere, che si era sposata sedicenne, spartana, non la chioccia che mi voleva sotto la gonna. Mi spingeva ad andar via, come la mamma di Aldo Braibanti nel Signore delle Formiche. Invece mio padre è tornato da sconfitto e io, liceale, lo intimidivo. Non trovavamo nulla da dirci, ma gli ho voluto bene».
Lei come aveva fatto a iscriversi al liceo e poi a Filosofia venendo da tanta miseria?
«Lavorando. Davo lezioni private. Ho fatto le medie la mattina dando lezioni il pomeriggio ai bimbi delle elementari. Al liceo, davo lezioni di latino a quelli delle medie. Nonna diceva: fai le magistrali così fai subito il maestro, ma io ero già ambizioso da piccolo e avevo voglia di istruirmi tanto».
Qual era l’ambizione?
«Noi ragazzi andavamo a scuola sognando non di diventare ricchi, ma di essere contenti. La contentezza è una parola bella. C’era un’energia felice, che abbiamo perduto col benessere, con la voglia di avere la villa, la vacanza, la barca. Che senso ha il benessere se non si ha il limite dei propri bisogni?».
A vent’anni, arrivò a Roma. Come se la cavò?
«Cogliendo un’occasione che avevo cercato. Andai a intervistare il regista Vittorio De Seta per una rivista studentesca e gli chiesi di prendermi come assistente volontario. Però non ero stupido, impreparato, presuntuoso. Ho fatto una gavetta che poteva essere contro le ambizioni di un quasi laureato in Filosofia che crede di non poter fare lo schiavo in un western all’italiana. Io lo facevo e mi divertivo pure. E De Seta, vedendo che lavoravo sul serio, mi ha pagato: avevo lasciato un posto di maestro e, per restare a Roma, avrei anche svaligiato una banca, ma non è servito perché lui mi pagò. Ho detto no a un solo film perché non mi pagavano».
Che film era?
«Su un set, conosco Anouk Aimée di cui ero pazzo: non osavo rivolgerle la parola; per me, era una chimera, irraggiungibile. Un giorno, stavamo pranzando e lei: non la mangi l’insalata? Ho detto no. E lei: la posso prendere io? Se non sono svenuto allora, non sverrò più nella vita. A fine produzione, mi propose di fare lo stagista nel film di un giovane regista, in Francia. Gratis. Significava pagarmi viaggio, albergo... Dovetti dire no a Un uomo, una donna».
A Claude Lelouche e a un film da Oscar. Che ricorda invece della sua nomination per Porte Aperte?
«Non sono andato. I biglietti li ho regalati. Uno, perché sono snob. Due, perché non era quello che volevo. Si diceva che il film potesse vincere, ma non mi sentivo di girare l’America per pubblicizzarlo. Pensavo: poi che faccio? Vinco e faccio un film enorme, costoso? Non ne avevo tanta voglia».
È la logica della contentezza di cui sopra?
«Io sto bene facendo le cose che so fare e ho voglia di fare».
La prima cosa che ha imparato da assistente regista?
«A capire le situazioni e adattarmi. Dato che andavano i western, imparai ad andare a cavallo da dio».
Per fare che, esattamente?
«Nei western, di cavalli ce n’erano anche duecento e l’ordine del regista di andare a est o a ovest non puoi trasmetterlo a piedi o correndo. Una volta poi il regista si fece male e, a cavallo, andai da una troupe americana attrezzatissima a prendere un dottore. Serviva eccome il cavallo».
Porte aperte racconta di un giudice, sotto il fascismo, che vuole salvare dalla pena di morte un triplice omicida. Sbaglio o c’era già molto della sua poetica: il valore dell’umanità, la compassione anche per chi fa cose discutibili?
«Io uso la parola “pietas”: qualcosa che ti affratella a un’altra persona. Il concetto di umanità m’interessa perché lo sento dentro, mi sento un uomo come gli altri uomini, non faccio differenze tra me e un estraneo».
Molti dicono che nei suoi film c’è sempre anche la «ricerca del padre».
«Credo che ci sia invece la ricerca di umanità anche in chi non ci è padre: nei miei film, ci sono tanti padri putativi e non è un caso che io, nella vita, abbia adottato un figlio».
Luan, figlio di pastori in Albania, che oggi è un bravissimo direttore della fotografia, scelto anche da Paolo Sorrentino.
«Stavo girando Lamerica, faceva la comparsa. In Albania, c’era una fame che nemmeno nel nostro dopoguerra. Il padre, malato, venne a dirmi: fino a oggi è stato figlio mio, da domani, sarà figlio tuo. Pochi mesi dopo, a Roma, Luan ha incontrato sua moglie formando una coppia indissolubile e dandomi poi tre nipoti. La sua carriera è una soddisfazione enorme, doppia, perché ha fatto tutto da solo, imparando tanto da Luca Bigazzi e dal belga Yves Cape. Oggi ci sono difficoltà odiose per chi vuole adottare e, intanto, i bambini muoiono infelici. Ma se due uomini o due donne scelgono di adottare un figlio è perché gli vogliono bene. I diritti civili vivono una crisi grave, sono spesso calpestati».
Una volta ha detto «io che ho amato Togliatti, io che ero diessino già allora... io che ho sempre votato per il Pci, voterò per tutte le sue diramazioni». Lo pensa ancora?
«Non ho cambiato idea».
Ha fatto un film su Bettino Craxi, raccontando, parole sue, «l’agonia di un leader che va alla morte coltivando rimpianti e rancori fino all’autodistruzione». Eppure, ha avuto la fiducia della vedova che l’ha lasciata girare in casa loro. Come ha fatto?
«Dicendo la verità. Volevo raccontare gli ultimi mesi di vita, non l’uomo politico. Di Craxi mi aveva attratto che si fosse battuto per salvare Aldo Moro e io sono per la vita che va sempre salvata. Il principio di Hammamet è: quanto è importante la vita per chi la sta perdendo».
Dei tanti attori che ha diretto, chi ha trovato umanamente speciale?
«Senza piaggeria: tutti, perché li ho voluti io».
Mi risponda su quelli non più vivi.
«Jean-Louis Trintignant, il primo giorno, mi disse “ricordati una cosa: io non sono intelligente, ma ho fatto 62 film e tu sei al primo film importante, ti prego, fai il regista”. L’ultimo giorno, finito l’ultimo ciak, ci siamo guardati in viso, lui si è tolto il golf, io mi sono tolto il golf e ce li siamo scambiati. Poi, ci siamo visti tanto, a Parigi, a cena, al teatro. A un giornalista che gli chiese di me, rispose: lui non dirige gli attori, li abita».
Perché lei disse no ad Antonio Banderas?
«Si propose per Il ladro di bambini, ma parlava spagnolo e si girava in presa diretta. E chiese una cifra spropositata. Doveva farlo invece Massimo Troisi, ma aveva già un altro set. Conservo l’audio che mi inviò quando vide il film. Diceva: sono contento di non aver fatto questo film, perché è grande assai, enorme, stupendo e, se ci fossi stato io, avrebbero detto che era pure merito mio, invece, è tutto merito tuo».
Dove tiene i premi che ha vinto?
«Sparsi per casa: sono molto utili per separare i libri per genere. Nello studio, i David di Donatello separano narrativa italiana e straniera; una Grolla d’oro stava coi libri in cucina, ma è sparita con una signora di servizio che, forse, pensava fosse d’oro massiccio. Mi è spiaciuto perderla».
La grolla?
«No, no. La signora. Poteva dirlo: avevo anche un’altra di grolla da darle».