La Lettura, 29 settembre 2024
Il regista Berger sul set di "Conclave" a Cinecittà
«De profundis clamavi ad te, Domine...». È stata una morte improvvisa e inaspettata quella che ha travolto il Vaticano. La sede apostolica vacante coglie tutti di sorpresa, difficile prevedere chi sarà il nuovo pontefice, su chi convergeranno i voti dei cardinali convocati d’urgenza a Roma. L’incertezza alimenta trame, intrighi, giochi di potere. Tocca al decano del collegio cardinalizio prendere in mano l’organizzazione del conclave. Robert Harris prese spunto per il suo bestseller uscito nel 2016 dal diario di un porporato, pubblicato in forma anonima, all’epoca dell’elezione di papa Ratzinger. Lo sceneggiatore Peter Straughan ha seguito piuttosto fedelmente il romanzo, con una piccola ma significativa variazione, in accordo con il regista Edward Berger che ha diretto il film Conclave. Al posto dell’italiano monsignor Lomeli, troviamo l’inglese Thomas Lawrence, un Ralph Fiennes che difficilmente resterà ai margini della stagione dei premi.
«Il suo è un viaggio nel dubbio. È stato questo l’aspetto su cui ci siamo concentrati con Peter Straughan. Il decano è un uomo in crisi rispetto alla sua stessa fede. Vorrebbe allontanarsi da San Pietro, prendersi una pausa di riflessione in un monastero remoto». E invece si ritrova in prima linea. «La responsabilità di cui viene investito moltiplica gli interrogativi. A partire dal più cruciale: servire Dio o la Curia? Lawrence è un uomo riflessivo, abituato a non esprimere i sentimenti. È il protagonista, ma in realtà ha poche battute. Tutto si riflette sul volto di Ralph Fiennes, è il suo viso che ci guida. È un viaggio affascinante, pochi attori avrebbero la stessa capacità di reggere primi piani così ravvicinati». Per lui la fede va di pari passo con il dubbio. «Compirà una sorta di viaggio di liberazione».
Conclave esce il 19 dicembre dopo il passaggio alla Festa di Roma. È stato girato nel 2023 a Roma, in buona parte negli studi di Cinecittà. In un set blindato che «la Lettura» ha potuto visitare, con la guida del regista tedesco, fresco di vittoria agli Oscar con il suo film precedente, Niente di nuovo sul fronte occidentale, anche questo da un romanzo, di Erich Maria Remarque. «Siamo agli antipodi, è vero. Quello era il racconto di una trincea aperta agli orrori della guerra. Qui c’è una battaglia, ma i conflitti sono chiusi in un mondo claustrofobico, con i cardinali che si muovono tra la Cappella Sistina e gli appartamenti di Santa Marta, senza contatti con l’esterno».
Sapevano che non avrebbero potuto girare in quei luoghi, erano pronti, dice, a ricostruire in studio tutti gli ambienti vaticani. Oltre a sfruttare location uniche, come Palazzo Barberini. Quello che produzione e regista non si aspettavano, racconta Berger, era la qualità delle riproduzioni. «Cinecittà si è dimostrata all’altezza della sua fama. Varchi il cancello su via Tuscolana e respiri cinema, pensi a chi prima di te ha camminato qui, all’energia e all’inventiva di Federico Fellini e di tutti i cineasti che l’hanno fatta grande. E anche a tutti gli artigiani in grado di regalarti illusioni concrete. La nostra Cappella Sistina non solo sembra fedele all’originale, ma comunica un senso di sacralità. Ogni volta che entriamo ci viene naturale abbassare la voce».
Il regista è pronto a girare una delle scene iniziali. Lawrence e alcuni cardinali (come il canadese Tremblay, interpretato da John Lithgow, e l’americano Bellini, Stanley Tucci) recitano il De profundis intorno al letto del papa defunto. Siamo nella residenza di Santa Marta a cui la scenografa Suzie Davies ha dato il tocco del razionalismo metafisico. Porte e corridoi nascondono trame e cospirazioni. «Abbiamo sottolineato il senso di isolamento, chiudendo le finestre, serrando le porte, sottolineando l’impossibilità di comunicare tra loro. Come in un pentola pronta a esplodere, sia pure scandita all’apparenza da rigore e tranquillità». Harris aveva assistito al conclave che portò all’elezione di Benedetto XVI, ricorda Berger. «Diceva che le immagini della moltitudine dei cardinali, tutti vestititi nello stesso rosso, gli avevano ricordato il Senato romano, dominato da lotte di potere. Tutto quello che si svolge veramente dietro le pareti vaticane resta un mistero, certo, lui si era divertito a inventare un collegio cardinalizio con porporati di ogni parte del mondo». Il film, spiega, è fedele al romanzo, già di per sé molto cinematografico. «È un film politico costruito come un thriller, esplora la dinamica tra idealismo e compromesso, tra spiritualità e realpolitik. La trama è scandita dalle votazioni per il nuovo papa, dall’attesa della fumata bianca, di sapere chi salirà sul soglio pontificio. La scelta è in mano a poco più di cento uomini selezionati».
Gli schieramenti sulla carta sembrano chiari: da un lato il più reazionario, persino apertamente razzista, il cardinale di Venezia Goffredo Tedesco (Sergio Castellitto), dall’altro il liberale progressista Bellini (Tucci). Con un terzo incomodo, il cardinale Adeyemi (Lucian Msamati), che si sogna primo papa africano della storia. Ma l’ingresso in scena del cardinale Benitez (Carlos Diehz), appena arrivato da Kabul, rimette tutto in discussione. E moltiplica i dubbi del decano. «Tedesco è un giocatore abilissimo, che sa quali fili tirare dietro le quinte e si diverte moltissimo a farlo. È un estroverso, ama la vita e il potere. Castellitto gli regala un tocco naturale e vibrante. Bellini lo accusa di voler riportare la Chiesa al Medioevo. In mezzo ci sono figure come Tremblay, un moderato accecato dalla vanità personale. Ognuno si sente pronto a diventare papa, ognuno sogna la Chiesa a sua immagine».
Un mondo tutto maschile in cui spicca la figura di suor Agnes, a cui presta il volto Isabella Rossellini. «Lei rappresenta il lato femminile, porta con sé una personalità molto dolce, calda, attenta e tranquilla. Ma decisa, con un suo carisma unico. Una donna che saprà fare la differenza. E Isabella l’ha fatta, con profondità e calore. È impossibile non amarla».
La Chiesa cattolica è il più antico patriarcato del mondo, sottolinea Berger. «Le donne sono in secondo piano, la loro voce non si sente. Per molti protagonisti, compreso Lawrence, questo è nell’ordine naturale delle cose; ma con il progredire della storia la questione si pone». Anche grazie alla suora, che si fa notare senza scomporsi: «So che il mio ruolo è essere invisibile. Ciò nonostante, Dio ci ha dato occhi e orecchie». Che lei saprà usare al meglio. «Chi ha letto il romanzo sa che la vicenda si chiude con un colpo di scena sorprendente e formidabile. Non voglio rivelarlo, ma ha a che fare con la necessità di aprire gli occhi su aspetti considerati immutabili, che invece devono misurarsi con la vita delle persone». La Chiesa, per dirla con le parole del cardinale Benitez, «non è il passato o la tradizione, è il futuro».
A differenza dello sceneggiatore Peter Straughan, Berger non ha avuto un’educazione cattolica, ma protestante. «Peter ha una familiarità con i riti e le liturgie che a me manca. Io sono protestante ma ho sempre trovato la tradizione cattolica più interessante e problematica. Prima di girare ho letto anche molti testi di teologia, cercando di immedesimarmi nei cardinali. Sono figure speciali perché sono uomini, dominati da sentimenti molto concreti, invidia compresa, ma anche emissione di Dio. Sono l’incarnazione di una contraddizione, credo una contraddizione insanabile».
Ma anche una contraddizione molto attraente per autori e registi. La storia del cinema, non solo la letteratura, è ricca di opere sui papi e il Vaticano. Habemus papam di Nanni Moretti, la serie tv di Paolo Sorrentino... per citare due registi italiani. «Non posso parlare per gli altri. Ma, è indubbio, si tratta di un mondo affascinante e misterioso. Sul piano ideale è una cosa bellissima, dedicare la vita a un’entità superiore, allo studio della teologia e della filosofia. C’è il piano della fede, e poi c’è quello del potere. E dei conflitti interiori. Diciamolo, per un regista è un territorio irresistibile. E tutti hanno realizzato opere totalmente diverse. Puoi vedere le loro personalità riflesse in quei film».
Nel suo caso, Berger s’è ispirato, oltre che alle pagine di Harris, a due film di un regista che ama fin dai tempi in cui studiava cinema, prima in Germania alla Hochschule für Bildende Künste Braunschweig, quindi alla Tisch School of the Arts dell’università di New York, dove ha terminato gli studi in regia nel 1994. È Alan J. Pakula. I film sono Tutti gli uomini del presidente e La scelta di Sophie. «Mi incanta la sua precisione sul set. Gli altri autori cercano compromessi, lui sa sempre dove arrivare». Anche i registi italiani hanno un posto nel suo Pantheon, dice: «Da tedesco sono consapevole di quanto il nostro cinema sia indietro rispetto all’Italia o alla Francia. I registi più creativi vengono da altri Paesi. Da noi è molto forte la televisione, che tende, però, a imbrigliare il talento. Credo che abbia a che fare con il nostro passato. Abbiamo sempre paura di osare, non ci azzardiamo a uscire dai nostri confini».