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 2024  settembre 29 Domenica calendario

André Aciman racconta gli anni a Roma

In Un’educazione sentimentale André Aciman, già autore del celebre Chiamami col tuo nome, racconta l’anno che trascorse da adolescente a Roma, prima che la sua famiglia in fuga dall’Egitto si stabilisse a New York. L’ostilità del presidente Gamal Abdel Nasser verso gli ebrei alla fine degli anni Sessanta costrinse la famiglia di Aciman all’esilio. Al molo di Napoli ad attendere André, il fratello minore e la madre sorda, c’era l’iracondo e avarissimo zio Claude, che viveva a Roma e permise loro di stare in un suo appartamento in via Clelia, nella zona popolare dell’Alberone. Una vita umile per una famiglia abituata agli agi. André reagì isolandosi nella sua stanza, chiudendo le persiane e rifugiandosi nei romanzi. Ma piano piano Roma gli rivelò la sua bellezza: le serate al cinema, le corse in bici per il centro storico, le tappe nelle librerie, i pomeriggi a piazza di Spagna, le amicizie, i baci.
Abbiamo incontrato lo scrittore su una panchina di Central park, a New York.
Quali sono le origini della sua famiglia?
«I miei antenati vengono da Spagna e Portogallo, si trasferirono in Turchia e nel Levante tra il Quattro e il Seicento. Il ramo da cui provengo andò a Costantinopoli; a casa parlavano ladino. Il francese si è inserito verso la fine del Novecento. Si trasferirono nel 1905 in Egitto, anche se molti sono stati cittadini italiani, perché con la guerra di Crimea del 1853 gli italiani concessero la cittadinanza a chiunque la volesse, agli ebrei specialmente. Poi molti rinunciarono alla cittadinanza italiana per quella francese. Un pasticcio da cui provengo anch’io».
E il cognome Aciman?
«È la trascrizione turca di un nome che sarebbe Agiman, dalla città di Jimena in Spagna».
Com’è nato questo libro?
«Volevo scriverlo da anni. Il mio memoir Ultima notte ad Alessandria si fermava alla partenza dall’Egitto. Volevo scrivere del periodo in Italia. All’inizio ho odiato Roma, non volevo starci, volevo andare a Parigi o Londra, ma a mano a mano che i mesi passavano ho capito che l’adoravo. All’inizio era molto difficile, stavamo in una zona tetra di Roma: via Clelia, vicino a via Niso e via Eurialo. Con questi nomi mi aspettavo una bellezza che però non trovai».
E avevate perso tutto.
«Non avevamo un soldo, solo le valigie, anzi nemmeno quelle, perché erano in un magazzino a Napoli. Ma tanto le nostre cose non c’entravano con la nuova realtà, appartenevano a un altro mondo e a un altro modo di concepire la vita».
Per annunciare il libro, ha pubblicato su Instagram una foto di quel periodo con sua madre. Ci parli di lei.
«Non ho molte foto di quel periodo, non ne scattavamo. Quando sei un profugo vuoi dimenticare, non hai niente da celebrare. Mia madre era una donna molto forte: benché fosse sorda se la cavava bene a Roma, andavamo al cinema e traducevo per lei in linguaggio dei segni, ha imparato un po’ di italiano, poco, ma al mercato la conoscevano tutti».
È più tornato in quel quartiere?
«Ho portato mio figlio a vedere l’appartamento. Altrimenti sarebbe rimasto nella mia immaginazione, volevo che qualcuno fosse testimone di quel periodo della mia vita. Ma non poteva capire fino in fondo: la zona è cambiata, è gentrificata, il mercato non c’è più». 
All’inizio suo padre rimase in Egitto. 
«Cercava di salvare un po’ dei beni sequestrati dal governo, la sua fabbrica fu nazionalizzata e subito rivenduta, cosa che lo offese. Poteva finire in prigione, ma lo lasciarono partire. Alcuni miei compagni di scuola finirono in un campo di concentramento dove venivano picchiati ogni giorno. Mio padre era una persona complessa, ma è facile capire perché: non voleva stare con mia madre e fu costretto a vivere con lei per gran parte della vita. Ma è grazie a lui che ho capito che amavo Roma: non la Roma antica, piuttosto quella barocca e rinascimentale. Più tempo ci restavo più capivo che quel posto zeppo di storia mi piaceva e avrei anche voluto abitarci, ma non ho mai potuto e sono diventato americano. Una volta che si abita qui è difficile accettare la vita quotidiana degli italiani».
In che senso?
«Mi piace molto stare a Roma ma dopo un mese diventi come gli italiani, ti trattano come un italiano. Le persone sono gentili, dolci, ma dopo un po’ iniziano a farsi sgarbi senza motivo e ti rendi conto che anche tu diventi più sgarbato. Credo che gli italiani siano impazienti».
Lo zio Claude era cattivissimo, eppure fece molto per voi – ogni volta umiliandovi.
«Venne a prenderci allo sbarco a Napoli e questo, vabbè, lo fai. Ma non sono mai riuscito a capire perché si impegnò a cercarci la scuola, a occuparsi di noi, a darci soldi, a venire a farci visita...». 
Aveva rubato dei soldi a suo padre? 
«A tutti, con molto garbo: a mio padre e a tutte le sorelle, che gli avevano concesso l’arbitrio sui loro beni».
Che cosa significava essere ebrei in quel momento a Roma?
«Gli italiani ci hanno tollerato benissimo, sapendo che eravamo ebrei».
Non c’era un clima di antisemitismo?
«Non l’ho mai provato e di solito ne sono molto cosciente. Lo sento subito, anzi lo invento a volte quando lo temo. Non l’ho mai provato in Italia, mai».
Lo zio Claude lavorò nel governo di Mussolini.
«Uno dei suoi fratelli portava la camicia nera. Dopo le leggi razziali le cose cambiarono, uno dei fratelli diventò una spia inglese, anche se manteneva la cittadinanza italiana e faceva parte del mondo fascista».
C’era solidarietà tra gli ebrei di diverse origini?
«Per niente. Noi siamo ebrei di Turchia, mentre la cultura degli ebrei egiziani era completamente diversa e non parlavano ladino. Quelli che ci hanno accolti qui a New York erano aschenaziti, ma sono stati più cordiali degli ebrei egiziani che si sono anche loro trasferiti in Italia. Non solo non c’era un legame, ma c’era anche un senso di reciproca sfiducia».
Qui in America vede segnali di superamento della politica identitaria, per esempio nel fatto che la candidata democratica alla Casa Bianca Kamala Harris non sottolinei troppo d’essere donna di origini indiane e giamaicane?
«Non so se sia superata. Non si possono evitare le etichette, ma credo che lei tenti di superarle. Io sono consapevole delle innumerevoli etichette che mi sono state attribuite. Ti limitano. E a me, essendo internazionale, piace non appartenere a nessuna cultura, religione, nazionalità, sessualità. Rifiuto le etichette, ma fanno anche parte di noi. E capisco pure che la gente che si è vista affibbiare a lungo etichette negative voglia rivendicarle e trasformarle in qualcosa di positivo».
Il clima politico in America e le guerre nel mondo la influenzano?
«Evito di seguire troppo i notiziari ma temo la guerra e so benissimo che non posso isolarmi da certe cose. Non mi piace che Trump possa vincere di nuovo, ma non ci penso in modo concreto».