Domenicale, 29 settembre 2024
Storia dell’aborto
Nella primavera del 1551 la nobildonna Eleonora di Toledo, moglie del granduca di Toscana Cosimo I, si trovò in pericolo di vita. In quel momento era anche incinta. I medici di corte giudicarono opportuno somministrarle dei medicinali molto forti, che le salvarono la vita ma provocarono la morte del feto al sesto mese di gravidanza. Sappiamo che Eleonora aveva già partorito nove figli e assicurato la successione al granduca. Non sappiamo però chi e come prese la decisione di intervenire, né che cosa questa significò per lei.
Oggi in Italia, stando alla legge in vigore dal 1978, l’aborto terapeutico è garantito fino al terzo mese. Oltre questo limite, una donna nelle condizioni di Eleonora deve far accertare dal personale medico «un grave pericolo per la [propria] salute fisica o psichica» prima di poter procedere. Solo nel caso di «imminente pericolo per la vita della donna», tali accertamenti non sono necessari. In alcuni stati americani, dopo la revoca da parte della Corte Suprema della sentenza del 1973 Roe contro Wade, a una gestante in pericolo di vita può perfino venire negata la possibilità di interrompere la gravidanza.
L’aborto nell’Italia moderna dello storico canadese John Christopoulos, uscito nel 2021 e ora tradotto con maestria da Filippo Benfante, dimostra come l’attuale rigidità dottrinale in materia da parte della Chiesa cattolica e di molti Stati laici abbia le sue radici non nell’età della Controriforma, come ci si potrebbe aspettare, bensì in quella dei Lumi (di cui qui non si dà conto ma che è stata ben indagata da Adriano Prosperi in Dare l’anima. Storia di un infanticidio [Einaudi, 2005]). Le ragioni per cui nel Cinque e Seicento la Chiesa tenne un atteggiamento rispetto all’aborto per certi aspetti più morbido di quello odierno vanno ricondotte alle scarse conoscenze mediche del periodo. L’ecografia ostetrica e altri strumenti diagnostici sviluppati nel XX secolo forniscono informazioni una volta impensabili circa il concepimento, l’impianto e lo sviluppo dell’embrione e del feto. «Queste tecnologie hanno reso la gravidanza più facile da conoscere». Così facendo, però, «hanno reso anche più rigide le politiche sull’aborto».
L’autore non chiarisce forse a sufficienza per il pubblico non specialistico come questo apparente paradosso si inserisca nel solco degli studi sulla sessualità in Occidente ispirati al filosofo francese Michel Foucault. Dal Settecento in poi, il progredire del sapere scientifico avrebbe portato a un graduale irrigidirsi del disciplinamento sociale – un’involuzione inaspettata per chi si dica di fede liberale e progressista, ma inevitabile per i seguaci di Foucault.
Il destino toccato alla bolla emanata nel 1588 da Sisto V «contro coloro che procurano, consigliano e consentono in qualsiasi modo l’aborto» è emblematico dell’epoca precedente all’Illuminismo. La bolla equiparò ogni forma di aborto all’omicidio, condannando i rei alla scomunica da parte della Chiesa (con l’auspicio che il braccio secolare infliggesse loro la pena capitale). Già nel 1591, tuttavia, cioè dopo soli tre anni, il successore di Sisto V fece marcia indietro, ripristinando il quadro precedente, che rimase poi invariato per oltre un secolo. Per molti teologi si trattava di omicidio solo se il feto aveva acquisito un’anima – cosa che avveniva a 40 giorni dal concepimento per i feti maschi e 80 per quelli femmina. Non avendo modo di datare con precisione il concepimento, medici, giudici e confessori mantennero ampia discrezionalità nello stabilire chi fosse colpevole. Distinguere tra aborto spontaneo, aborto indotto e neonaticidio era spesso impossibile.
Il volume mette a nudo le ambiguità delle norme e delle pratiche legate all’aborto a partire da tre prospettive: la storia della medicina, la storia della teologia e del diritto canonico e la storia delle leggi civili e della giurisprudenza. La difficoltà di tracciare linee nette tra queste tre sfere induce talora l’autore a ripetersi, così come la mancanza di dati quantitativi fa emergere qualche contraddizione (i tribunali ecclesiastici furono o non furono più clementi verso i membri del clero?). Ciò detto va riconosciuto a Christopoulos il merito di addentrarsi con grande ricchezza di particolari e altrettanta sensibilità in temi di assoluta rilevanza sui quali le fonti gettano una luce parziale e tendenziosa. Si pensi ai rapporti di potere tra uomini e donne, e quindi alle differenze di genere ma anche di rango, di relazioni e agganci sociali o di livello di istruzione, nonché al labile confine tra scelta, necessità e coercizione, tra complicità e sopruso.
Ci vengono restituiti frammenti di vita di nobildonne quali Eleonora ma soprattutto di donne di umile estrazione, di vittime di violenza sessuale come una certa Rosana nella Roma di fine Cinquecento, di preti lussuriosi e giovani ribaldi, di levatrici, parenti e vicini delatori o conniventi, di speziali, barbieri, chirurghi e medici in grado di dispensare rimedi di dubbia provenienza ed efficacia, di giudici, vescovi e confessori più o meno indulgenti. A fronte della varietà delle esperienze umane affiorano comunque alcuni tratti di fondo. Nell’Italia del Cinque e Seicento non solo le relazioni extramatrimoniali ma anche gli aborti erano frequenti. Privi di conoscenze e strumenti diagnostici adeguati, periti medici e legali (tutti uomini) si accanivano sui corpi delle donne alla ricerca, spesso vana, di prove dei moventi e dei metodi di quanti erano stati coinvolti in un aborto.