Robinson, 29 settembre 2024
Aspettando l’aereo
Non mi piace viaggiare in aereo, se fossi venuto al mondo per volare, penso io, sarei stato costruito diversamente, e il fatto che ci sia una macchina appositamente costruita per farlo al posto mio non mi solleva dall’ansia di un atto contro natura, e questa faccenda dell’ala portante mi suona più come un esercizio di prestidigitazione che una conquista dell’umanità. Capirete dunque in quale stato di angoscia nei mille aeroporti di lingua ispanica mi ponga in attesa dell’annuncio del destino final; la proclamazione del mio destino final, sia Bogotà, Caracas o Ciudad Juarez, alle mie orecchie non ha in sé un semplice doppio senso, ma uno solo, un’univoca, irrevocabile, agghiacciante previsione. Tutto questo perché noi di qui adoratori della Disgrazia abbiamo manipolato e travisiamo un innocuo verbo latino, destinare, rafforzativo di stare, con il significato di fermare, di restare. Deficiente, Ciudad Juarez è la destinazione non il destino. Che ogni destinazione fosse un destino ce lo siamo voluto noi; non il Devoto, non il vecchio Pianigiani e neppure il Semerano gli dedicano una riga di etimo, il nostro destino non ha uno straccio di storia degna di nota. In latino, sì sa, c’è il fatum, e ce l’avevamo anche noi il fato con cui sbrigarcela, ma sarà ormai mezzo secolo che non sento più pronunciare quella parola. E sarebbe un bene se non avessimo pervertito la destinazione in fatalità. Tanto per capirci, se una politica è destinata al fallimento ciò non vuol dire che c’è di mezzo il fato e la fatalità, ma solo l’incapacità, ciò di cui senza pudore accusiamo “il destino cinico e baro”, citazione da Giuseppe Saragat.