Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  settembre 29 Domenica calendario

Il calcio argentino

La sera del 29 ottobre del 1960 nel quartiere Lanùs, alle porte di Buenos Aires, si fa grande festa. La squadra del barrio ha appena pareggiato con i Millonarios del River Plate e grazie a quel prezioso punticino è riuscita a evitare la retrocessione. In piazza cantano felici anche Dalma e Diego. Lei per tutti è semplicemente Tota, lui il Chitoro, una crasi tra Che e Toro per sottolinearne la forza. Vanno a ballare, perché malgrado Tota sia incinta all’ottavo mese è difficile chiedere agli argentini di rinunciare alla milonga. Dalma e Diego si divertono ma quando rientrano a casa, ormai a notte fonda, la donna si accascia nel letto assalita da dolori lancinanti. La corsa in ospedale, qualche ora di travaglio, poi alle sette del mattino dà alla luce un maschietto. Il medico, dopo aver sollevato il neonato, lo ripone nel grembo della mamma. La guarda e le dice: «Guardi che bel pupo, signora! È tutto muscolo, culo e capelli. Mi creda, questo sarà il futuro dell’Argentina». Nel reparto maternità dell’ospedale Evita Peròn, quel 30 ottobre del 1960, il piccolo Diego è l’unico maschio appena nato. Le altre undici sono tutte bambine. Diego, di cognome, si chiama Maradona. E, nel bene e nel male, farà davvero la storia di un Paese che da almeno un secolo e mezzo vive per il pallone. Il fulbo,come lo chiamano da quelle parti. Perché è vero che gli inglesi hanno inventato il calcio, ma gli argentini hanno fatto qualcosa di molto più importante: hanno inventato l’amore per il calcio.Parola di Federico Buffa, il più famoso ( e bravo) storyteller dello sport, che insieme al giornalista e scrittore Fabrizio Gabrielli ha messo insieme una quantità impressionante di storie che intrecciano il fulbo alla politica, la passione dei tifosi alle rivoluzioni, passando per le dittature e l’emigrazione italiana. Che, in Argentina, ha molto a che vedere con il gioco del pallone. La milonga del fùtbol parte dal 20 giugno del 1867, quando nel sud più a sud delle Americhe si disputa la prima partita di calcio della storia del Paese. Con un prologo assai imbarazzante per i protagonisti costretti a indossare i pantaloncini corti in presenza di alcune signore in tribuna. Si gioca otto contro otto, ci sono ovviamente gli inglesi che da queste parti la fanno da padroni e sul calcio non hanno rivali, ma anche un gruppo di “locali” che riesce a dare filo da torcere ai più esperti avversari. È un momento storico perché da quel momento il pallone per gli argentini non sarà più uno sport ma una vera e propria ragione di vita. Capace di influenzare scelte politiche, cambiare il corso della storia e risollevare la nazione anche nei momenti di maggiore difficoltà. Buffa e Gabrielli intrecciano tutto questo in un libro che si legge come un romanzo. Eche forse un romanzo lo è davvero visto che, come diceva Eduardo Galeano, «il calcio è uno specchio della società: un gioco nel quale si riflettono le sue virtù e i suoi difetti». C’è dunque l’epopea dell’Alumni Athletic Club, «invincibile armata del protocalcio argentino». E la prima partita della nazionale albiceleste, voluta dal barone del tè, Sir Thomas Lipton, che all’inizio del Novecento decise di donare una coppa ai vincitori della sfida tra argentini e uruguayani, a patto che a scendere in campo fossero tutti nativi. Ma c’è soprattutto il calcio di strada, anzi da potrero, la fascia di terreno incolto piena di buche tra un palazzone e l’altro nella quale i ragazzi del barrio imparano la vita correndo dietro a una palla di stracci. E poi il pibe, il ragazzino scapestrato che gioca completamente fuori dagli schemi dando tanto fastidio ai perfezionisti britannici, e la criolla, l’arte dell’imprevisto che ha reso il calcio argentino uno sport totalmente diverso da quello degli altri. Tanto che da quelle parti lo chiamano semplicemente La nuestra.«Sono così le storie del calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni» amava ripetere Osvaldo Soriano. E risate e pianti, pene ed esaltazioni si intrecciano in quella di Renato Cesarini, uno che segnava spesso negli ultimi minuti, nella zona di tempo che ormai porta il suo nome. Ma anche nella povertà di Omar Sivori, maleducato e violento ma capace di fingere un malore per andare in ospedale e stare accanto a un avversario al quale aveva appena spaccato una gamba. E nel viaggio a bordo di una nave di lusso di Julio Libonatti, il primo degli oriundi italo-argentini che spopoleranno in Italia, voluto a tutti i costi nel 1925 dal conte Enrico Marone Cinzano per il suo Torino nel tentativo di spezzare l’egemonia degli Agnelli e della Juventus.Personaggi che si incrociano con i grandi fatti della storia argentina: la scalata al potere di Juan Domingo Perón e della giovane moglie Evita, il colpo di stato militare di Videla del ’ 76 e la scomparsa di migliaia di oppositori, il mondiale giocato e vinto in casa con il “comunista” Cesar Menotti alla guida dell’albiceleste fino all’avvento del più grande giocatore di tutti tempi: Diego Armando Maradona, il pibe de oro, il re dei due mondi capace di incantare in patria e poi di regalare un sogno ai napoletani. «Di Maradona – ha detto una volta Jorge Valdano, che con Diego vinse i mondiali del 1986 – basta dire che tutto quello che faceva su un campo di calcio era perfettamente irragionevole». Difficile trovare una definizione migliore.