Libero, 29 settembre 2024
Intervista a Renzo Volontieri, 104 anni
Renzo Volontieri, che buon profumino.
«Risotto allo zafferano, l’ho cucinato io. Mi piace stare ai fornelli per passare il tempo».
Piatti forti?
«Quelli tipici milanesi. Riso, ma anche trippa e cassoeula».
Per chi cucina?
«Per me e per Luisa, l’amica che viene a trovarmi tutte le mattine».
Scusi, ma vive da solo?
«Sì, perché?».
Beh, a 104 anni è insolito.
«Sto bene e sono autosufficiente, ho solo qualche piccolo problema di mobilità».
E come è la sua giornata tipo?
«Sveglia alle 9, colazione. Poi leggo i quotidiani dalla prima all’ultima riga, comprese pubblicità e necrologi - perché tutto può essere interessante – e discuto dei temi del giorno con Luisa. Ci confrontiamo su tutto».
L’ultimo argomento “caldo”?
«Lo stadio di San Siro. Io sono per la demolizione e la ricostruzione di un impianto nuovo. Il Meazza ha fatto il suo tempo».
Scusi, perché sorride?
«Molta gente si lamenta e non sa nemmeno chi era Peppino Meazza. Io invece l’ho conosciuto».
Racconti subito.
«Aveva dieci anni più di me e lo vedevo giocare da ragazzino, tra amici, al campetto della vecchia Ausonia in Città Studi».
Mai sceso in campo con lui?
«No, non ero bravo con il pallone e preferivo guardare».
Renzo, torniamo alla sua giornata tipo.
«Nel pomeriggio faccio un riposino e poi mi invento qualche attività per trascorrere il tempo senza annoiarmi. Di sera guardo il telegiornale e leggo fino a tardi: non vado mai a dormire prima di mezzanotte».
Il suo segreto per arrivare così a 104 anni?
«Tanta fortuna. Però è fondamentale non eccedere nei vizi tipo alcol o tabacco. E mantenere un’alimentazione regolare».
E funziona. Lei ha l’aspetto di un giovane: capelli lunghi e jeans strappati alla moda.
«I pantaloni sono così per l’usura, la capigliatura è una scelta: le teste rasate non mi sono mai piaciute, nemmeno quando ero giovane».
Torniamo insieme indietro nel tempo. Al baby Renzo.
«Nasco a Milano il 4 dicembre 1920 sulla Darsena. Siamo due fratelli, io e Franco. Mamma Maria muore quando ho solo 9 anni, papà Mario fa il salumiere».
Lei che bambino è?
«Tranquillo, finché viviamo sul Naviglio esco poco perché non c’è molto spazio per giocare: l’acqua è navigabile e ci sono i barconi che portano la sabbia sfruttando la corrente o facendosi trainare dai cavalli».
Poi?
«Nel 1928 ci trasferiamo ed esco spesso con gli amichetti. Giochiamo alla lippa, sa come è?».
I due pezzi di legno?
«Sì, ricavati da un manico di scopa e appuntiti ai lati: uno corto e uno più lungo. Si disegna a terra un cerchio e si inserisce quello corto, che poi si deve far saltare colpendolo con l’altro. Vince chi lo manda più lontano».
Torniamo a lei. Che scuole frequenta?
«Le elementari e poi, a 14 anni, inizio a lavorare in un negozio di salumeria: faccio la gavetta, pulisco, imparo a preparare i cartocci. Nel frattempo, però, mi iscrivo a un corso serale per salumiere».
Sono gli anni del fascismo. Lei da che parte sta?
«Faccio tutta la trafila. Per i “figli della lupa” sono fuori età, riesco per poco a essere “balilla”, poi divento “avanguardista” e “giovane fascista”».
Quindi in quegli anni è a favore di Mussolini?
«Sì, certo».
E adesso? Si considera di destra?
«Diciamo che non ho mai votato a sinistra».
Va ancora alle urne?
«Mai perso un’elezione. Alle scorse europee ho votato la Meloni: è in gamba, determinata, concreta, sta facendo cose che altri prima non hanno fatto. E poi viene dalla Fiamma...».
Renzo, rituffiamoci nel passato. Quando ha 19 anni scoppia la guerra.
«A marzo 1940 arriva la cartolina e dopo quattro giorni devo partire: artiglieria a Vigevano. Ma poi giro parecchio».
Dove la mandano?
«Tre mesi a Beaulard, sul fronte francese, 3 km prima di Bardonecchia. Sono un “puntatore”».
Cioè?
«Siamo squadre di 7 uomini e abbiamo in dotazione un cannone un po’ vecchiotto della guerra 1915-1918 che pesa 80 quintali e ha proiettili da 50 kg. Io ho il compito di mirare il bersaglio, che non si vede a occhio nudo perché è distante fino a 15 km. Il mio è tutto un lavoro fatto su carte, rilievi e gradi».
Quali sono gli obiettivi?
«Costruzioni militari, roccaforti».
Poi?
«Rientro a Vigevano e nell’inverno lavoro al deposito della polveriera con dinamite, balistite, polvere da sparo».
Urca, pericolosissimo.
«Molto e ci sono regole ferree: nessun oggetto di metallo addosso, stivali solo di gomma, mestoli di rame. Nel 1941, invece, mi spediscono un mese al confine con la Jugoslavia e poi in Sicilia, ad Agrigento».
Sempre come puntatore?
«No, in un osservatorio sopra Porto Empedocle. E resto lì fino al 1943».
Il 10 luglio proprio in Sicilia sbarcano gli Alleati con l’operazione “Husky”. Come mai quello sguardo?
«Sono uno dei primi a saperlo».
Ah. Spieghiamo bene.
«Arriva una telefonata all’osservatorio e veniamo avvertiti quando nessuno ancora sa niente. Ricordo le parole precise: “Tra Gela e Licata sono in atto operazioni di sbarco delle truppe Alleate"».
La vostra reazione?
«Sorpresa, ma anche paura perché in quel momento siamo i nemici. Controlliamo il mare da lontano, ma non abbiamo una linea di difesa e non ci resta che aspettare. Quando arrivano dall’interno gli americani, che sono tantissimi, veniamo presi e diventiamo prigionieri».
Dove vi portano?
«Ci imbarcano a Licata e arriviamo a Biserta, in Tunisia, in un primo campo».
Come vi trattano?
«Bene, c’è sempre cibo a parte durante il tragitto verso Algeri in cui ci danno la “razione K”, alimenti vitaminizzati che durano 24 ore».
Ad Algeri finite in un altro campo di lavoro?
«Quello più grande e più organizzato, dove si produce il pane, le tende sono comode, c’è acqua».
Lei di cosa si occupa?
«All’inizio scarico le navi nel turno di notte, che scelgo perché ci danno più cibo. Poi riesco a entrare in ufficio e ci resto fino al dicembre 1944, quando rientriamo in Italia».
Destinazione?
«Bari, dove nel giugno 1945 non siamo più prigionieri ma torniamo ad essere soldati italiani. E ci sembra di stare in hotel: alloggiamo in una scuola requisito, ci sono le docce e perfino un parrucchiere civile».
E può tirare un sospiro di sollievo.
«Insomma...».
Perché?
«Rischio grosso per l’esplosione di una nave in porto. La deflagrazione fa cadere a terra un caporale a mio fianco, in ufficio, che batte la testa e muore. Io mi salvo perché esattamente in quel momento mi giro e mi chino per spostare uno sgabello».
Finalmente poi, dopo 5 anni lontano da casa, torna a Milano.
«Viaggio in autostop su un camion perché la rete ferroviaria è devastata e quando arrivo mi prende l’angoscia: il 30 percento della città è distrutto, fa freddissimo».
Però bisogna ripartire.
«Riprendo subito il lavoro in salumeria fino al 1954, quando passo all’Alemagna. E lì, poco tempo dopo, conosco Lia».
La sua futura moglie.
«La invito a bere un aperitivo, un gin rosa shakerato, ci fidanziamo, nell’agosto 1959 la sposo e nel 1960 nasce Claudio. Lia è morta nel 2019 e da allora vivo da solo».
Renzo, ultime domande veloci.
1) Rapporto con la religione?
«Sono credente, ma non praticante».
2) Paura della morte?
«Non ci penso, ma so che deve venire perché è la vita».
3) Mai stato in una casa di tolleranza?
«Da militare era il primo posto che cercavamo quando si arrivava in una località nuova e a Vigevano era il nostro rifugio dopo la ronda. Quando facevo il salumiere, invece, andavo tutti i giorni a portare il cibo alle ragazze. Erano posti puliti, in ordine. Quando arrivava la visita fiscale suonava un campanello e tutto il personale si metteva in fila per i controlli dell’ufficio igiene. È stato un grave errore chiuderle».
4) Cosa ne pensa dei giovani di oggi?
«Li stimo e ho molta fiducia in loro».
5) Renzo, a 104 anni ha ancora un sogno?
«Arrivare alla fine in buone condizioni. Io mi sento ancora giovane».
Ultimissima. Quale età punta?
«Guardi, quando avrò 107 anni mi dovranno sostituire le pile del pacemaker e quelle nuove dureranno 10 anni. Faccia lei il conto…».