Avvenire, 29 settembre 2024
Dove trova l’ispirazione Woody Allen?
La musica jazz, Freud e le donne sono le tre “magnifiche ossessioni” che assillano Woody Allen. Le ha confessate al giornalista e biografo Eric Lax nel libro-intervista appena pubblicato in Italia da La Nave di Teseo con il titolo Conversazioni su di me e tutto il resto (pagine 620, euro 20,00). Il regista e attore newyorkese racconta qui delle sue depressioni e delle rinascite, di crisi affettive e rapporti familiari difficili, ma si sofferma soprattutto sul modo in cui scrive soggetti, copioni e libri, su come sono nati i suoi film più importanti e come si relaziona sul set con attori e tecnici.
Domande e risposte, spesso dal tono informale, abbracciano trentasei anni di vita del genio dell’umorismo, autore di commedie cinematografiche come Il dormiglione e Zelig e vincitore di quattro Oscar (per la regia e lo script di Io e Annie e le sceneggiature di Hanna e le sue sorelle e Midnight in Paris): si tratta di lunghe chiacchierate con l’amico Lax, autorevole firma di “Vanity Fair” e del “New York Times”, intrecciate sul set in una pausa delle riprese, a tavola o durante una vacanza trascorsa insieme. Il ritratto che ne viene fuori è quello di un attore «sfigato di città con l’aria da secchione», come lui stesso si è definito, ma anche di un regista “anomalo” il quale, non appena gli affiora alla mente un’idea buona per un nuovo film la buttà giù su una paginetta e non di più, scrivendo rigorosamente a mano come farà anche per la prima stesura della sceneggiatura. Allen è un creativo che si appunta battute, storielle, barzellette ascoltate su bigliettini che poi custodisce nei cassetti della scrivania per tirarli fuori quando gli servono. È un regista che si è cimentato in quasi tutti i generi cinematografici, dalla commedia sentimentale al thriller, sapendoli, all’occorrenza, sapientemente mescolare. «Ma non voglio entrare in storie di spionaggio perché le trovo stupide e poco realistiche», ha precisato. Ecco allora che le trame spesso si “riducono” alla descrizione dei rapporti umani, quasi sempre complicati e traboccanti di risvolti psicologici e di conflitti dagli effetti umoristici, se non proprio comici. Nevrosi, gag, situazioni al limite dell’assurdo, non mancano mai nei suoi copioni, con l’attenzione a chi ci si trova dentro, perché «far ridere di un personaggio è impagabile».
La metropoli, la sua Manhattan, è sempre stato il suo “crogiuolo”, una specie di ventre che lo rassicura e lo impaurisce sin da quando era in fasce e la madre lo trastullava mettendolo a guardare dalla finestra i grattacieli e il traffico caotico della “Grande Mela”: «Se devo recitare in un film sofisticato finisco per interpretare il solito newyorkese visto tante volte, brillante quanto lo sono io nella vita, ossia a livelli non certo eclatanti». I suoi personaggi sono quasi sempre dei perfetti cittadini medio-borghesi, pseudo- intellettuali e qualche volta pure cialtroni. Così fanno ridere. Ma qual è la matrice del suo umorismo, oltre alla tradizione ebraica alla quale attingere (nonostante sia ateo) reinventando novellette e freddure? «Da ragazzino mi piacevano da morire Bob Hope e Groucho Marx, sono cresciuto con loro, da adolescente mi impegnavo a fare battute e sputare storielle fulminanti una dopo l’altra, con la massima scioltezza possibile, poi ho sentito il bisogno di fare teatro». I suoi maggiori sforzi creativi, però, si concentrano nel pensiero: «Niente carta e penna nè scrivania, all’inizio: mi chiudo in camera, mi metto a letto, mi sdraio su un fianco e fisso il vuoto per ore. Poi esco e vado al ristorante. E penso anche lì. Dopo pranzo torno a chiudermi in camera: è dura ma le idee migliori mi arrivano proprio così».