Avvenire, 29 settembre 2024
Israele nella Bibbia
«Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo al cuore della Sapienza» ( Sal 90,12).
Rut, la straniera, si unì a Noemi la betlemmita con uno slancio di solidarietà e sororità verso la vecchia donna che era stata sua suocera: «Dove tu andrai io andrò, dove tu ti fermerai io mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo, il tuo Dio sarà il mio Dio» (Rt 1,16. Su quel meticciato di pura amicizia nacquero i re di Giuda ed ebbero una secolare fortuna nella terra che, a sua volta, era divenuta comune a Israeliti e Moabiti. Una terra di mietiture e di pace. Anche Gesù vi potè abitare intrecciando parole e destini oltre i segni posticci dei confini. «Partito di là, andò nella regione di Tiro. (...) Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. Ed egli le rispondeva: “Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Ma lei gli replicò: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”» ( Mc 7,24-28). Gesù era un giudeo che si lasciava commuovere dal dolore delle madri anche se straniere. Preoccupato per la salvezza dei Giudei, non aveva messo in programma anche quella dei popoli vicini se non come un’eventualità. Ma la donna di Tiro rompe con umile maestrìa i confini geografici e teologici dell’agenda del Maestro e trasforma quella terra in una casa condivisa pur se tra ebrei e siro-fenici. Tutti hanno fame e, quindi, diritto di chiedere pane alla terra. E al Cielo che su di essa fa piovere. Il dolore di una madre di lingua greca, per una figlia malata, non è diverso da quello di una madre che parla l’aramaico. Il cedimento di Gesù segnala la bontà della terra quando può essere coltivata e attraversata per creare legami, per portare briciole di benedizione oltre i presidi di bandiera. E mentre la donna «tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato» (v.30), Gesù «di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli» (v.31). Da una regione all’altra, quel giudeo di Galilea liberamente se ne andava portando consolazione e da Tiro raggiungeva la Decapoli passando per Sidone. Rileggere i testi evangelici e biblici nei giorni in cui vediamo le strade di Sidone colme di auto con a bordo i libanesi che scappano dalle bombe di Israele fa stringere il cuore (a chi ce l’ha...). Quella terra che appare così in pace sotto i piedi in cammino di Gesù che ne unisce i canti dei villaggi e le pieghe dei volti, diventa una gabbia di terrore nelle foto dei profughi. Che scappano dalle case e dalle spiagge, dai campi e dalle colline impresse nella pelle e negli occhi, per andare via. A vivere e morire chissà dove, comunque altrove.
La terra promessa
Una terra dolce di latte e di miele era la terra promessa da Dio a Israele. Ma Abramo ci visse sempre come uno straniero (un gher). Egli era un arameo errante, un migrante economico. Nel Paese dei Cananei imparò a scavare pozzi in modo di poter stringere alleanze attorno a quelle acque indispensabili per abbeverare greggi e armenti, base dell’economia pastorale. Invece di scacciare con la prepotenza gli oriundi e di fare propria la regione, Abramo non si fece padrone di nulla e visse e prosperò come uno straniero nella terra degli stranieri. Solo un piccolo perimetro acquistò da Efron l’Hittita : quello per dare sepoltura a sua moglie Sara. Così Abramo non possedette che una tomba nella terra – bella e spaziosa – che Dio gli aveva promesso. E fu per questo che poté prosperare insieme ai Cananei.
Come concime sui campi
Ma molte generazioni dopo, i suoi discendenti, profughi dall’Egitto, occuparono la terra promessa da Dio al loro proto-patriarca con la violenza e la sopraffazione. Per sfuggire, in verità, allo sterminio, Israele cedette, però, alla tentazione di sterminare, di prendere tutto per sé, di togliere terreno non solo agli stranieri – gli indigeni cananei – ma pure ai propri fratelli. Ebbero la meglio le divisioni e le ostilità esterne e interne, la distinzione tra amici e nemici e, quindi la guerra senza fine. E fu per questo che il Dio dell’Alleanza li scacciò e li esiliò dal Paese che Dio aveva promesso – e dato – alla discendenza di Abramo perché fosse tra tutti condivisa. Le immagini di questa perdita di diritto sulla terra è plastica nel libro di Geremia: «In quel tempo – oracolo del Signore – si estrarranno dai loro sepolcri le ossa dei re di Giuda, quelle dei suoi capi, dei sacerdoti, dei profeti e degli abitanti di Gerusalemme. (...) Non saranno più raccolte né sepolte, ma diverranno come letame sul suolo» (Ger 8,1-2). Ci vorrebbe, dunque, un bel coraggio per affermare che la Bibbia assicura a Israele la proprietà della terra promessa. Vorrebbe dire negare più della metà delle parole dei profeti. In verità non ne assicura nemmeno l’usufrutto. Con l’atroce profezia del disseppellimento dei corpi di tutti gli Israeliti la Scrittura dice chiaramente che gli ebrei non avranno più in dono la terra la quale, dolce come il miele, era stata resa amara come fiele. Se solo le tombe erano di proprietà di Abramo, una volta che quelle fossero violate nulla nella terra promessa più gli sarebbe stato di diritto. Una verità che tutti gli Israeliti conoscevano, del resto. Sapevano bene cosa volesse dire mancare di una tomba o negare a qualcuno una sepoltura.
Rispa
Poco dopo essersi insediato come re su Israele, David dovette affrontare una lunga carestia. Un segno con cui il Signore gli mostrava che qualcosa che avrebbe dovuto fare egli non aveva fatto ancora. Saul infatti – il re che l’aveva preceduto – aveva «fatto morire i gabaoniti» (2 Sam 21,1), un crimine che il suo successore avrebbe dovuto vendicare. Occorreva che il sangue dei figli degli Amorrei fosse vendicato col sangue di sette figli di Saul. La vendetta prevedeva l’impiccagione, dopo di che i loro corpi dovevano marcire insepolti. Ma ci fu una donna, la madre di due degli impiccati, di nome Rispa, che restò a lungo a custodire i corpi dei suoi figli scacciando da loro gli uccelli, di giorno, e le bestie selvatiche, di notte, finché qualcuno non riferì a David intorno a questo atto d’amore e dignità, di pietà e libertà. Il re ne fu colpito e fors’anche umiliato ma, intelligente e umano com’era, non tardò a dare sepoltura a quella carne che, già maledetta, era pure corrotta. Non è facile chiamarsi, dunque, “figli di David” senza tener conto di ciò che fece il padre di tutti i futuri messia. Eppure succedono ancor oggi cose persino peggiori di queste. È di qualche giorno fa l’orrenda notizia di un camion che da Israele è andato sulla Striscia di Gaza a rovesciare a terra un carico di cadaveri in decomposizione probabilmente di palestinesi uccisi in Israele ma che Israele non voleva seppellire sul proprio territorio. Corpi maledetti, indegni di avere sia una terra per vivere sia una tomba per morire. E tutto ciò mentre a New York molti leader europei – tra cui quello italiano – non esponevano una pur minima denuncia di queste e altre sofisticate forme di barbarie. All’Onu dovrebbe andare Rispa, lei sì, una vera madre e colma di quella pietas che è stato il sentimento su cui è nata l’umana civiltà dei popoli che sorgono attorno al bacino del Mediterraneo.