Il Post, 28 settembre 2024
Apologia del minibar
Siamo venuti al mondo insieme, io e il minibar, nel 1974: mentre alla Mangiagalli di Milano il dottor Luigi Fedele faceva nascere me, all’Hilton di Hong Kong il direttore Robert Arnold faceva installare il primo minibar nella suite 208. Non si è trattato, tecnicamente, di un’invenzione, perché l’oggetto in sé, ossia un frigo di piccole dimensioni, esisteva già da anni (il primo esemplare risale al 1963, prodotto dalla tedesca Siegas come modellino del frigo grande), ma di un’intuizione di marketing: chiamare bar un frigo sicuri che un bar incustodito verrà svuotato. Fin da subito, infatti, il minibar si rivela felicemente performativo, dissetando sempre più clienti e contribuendo al fatturato dell’Hilton di Hong Kong abbastanza (+5% nei primi 12 mesi) da essere via via collocato in tutte le stanze della famosa catena, per poi dilagare in alberghi di ogni tipo, dall’America all’Europa. Di più: in pochi anni il minibar diventa la dotazione su cui si gioca l’appartenenza alla categoria tre stelle degli alberghi. Ricordo come fosse ieri il nostro primo incontro: estate 1982, villeggiatura sulle sponde del lago di Lugano, Hotel Lutetia di Carona, un tre stelle ormai chiuso che a me sembrava una reggia. Mi svegliai nel cuore della notte, nel disorientamento tipico che ti avvolge nelle stanze d’albergo, richiamata da un rantolo, un respiro metallico. Proveniva da lì, da quella specie di scatola nera incastonata nel mobile tv, nell’angolo più buio della camera. Come attratta da un oscuro magnete strisciai fuori dal letto e seguii il respiro fino a trovarmi inginocchiata davanti al minibar: lo aprii e, quasi accecata dalla luce improvvisa, mi ritrovai davanti a un mondo a mia misura, una teoria di boccette cangianti che mi offrivano un bacio, un sorso, soltanto uno, del loro misterioso contenuto. L’incanto fu spezzato dall’urlo di mia madre: «Non toccare il minibar!», frase che divenne un mantra degli anni a venire, a ogni soggiorno in albergo, assurta a pilastro educativo della mia generazione, a buon diritto accanto a questa casa non è un albergo, niente interurbane e spegni le luci.In realtà mia madre, una donna suggestionabile, mi ha poi confessato che l’avermi trovato in ginocchio davanti al minibar nel cuore della notte l’aveva terrorizzata a un livello da horror cinematografico: era l’anno di uscita di Poltergeist e lei aveva pensato che forse anche il minibar, come la televisione del famoso film, potesse essere un portale di accesso a una dimensione parallela. E, qui lo confesso, lo penso anch’io. Cose molto importanti della mia vita sono successe davanti a un minibar: ho chiesto al mio ragazzo di sposarmi (lui ha accettato, aprendo un piccolo whisky), ma ovviamente ero ubriaca e quindi pochi anni dopo, sempre davanti a un minibar, ho dovuto dirgli che era stato un terribile errore (miscelandomi un gin & tonic). E a un minibar si deve probabilmente anche un cambio di rotta della storia: nel 1987, in occasione del Washington Summit tra Ronald Reagan e Michail Gorbachev, la delegazione russa scoprì per la prima volta il minibar nella suite di Gorbachev al Madison Hotel. Come racconta Colin Powell nel suo My American Journey, la sera prima del summit che avrebbe disteso per sempre i termini della Guerra Fredda i sovietici si concentrarono sul minibar al punto da spendere il corrispettivo di tremiladuecento dollari attuali in consumazioni.
Va considerato che tutto ciò, sia il Washington Summit che le mie vicende matrimoniali, accadeva prima che esistessero i cellulari, e quindi le buone e le cattive notizie ci arrivavano da telefoni fissi, talvolta in camere d’albergo. Negli anni ho notato che la distanza media tra il telefono e il minibar, sempre eccessiva, faceva sì che non si potesse telefonare e dragare il minibar allo stesso tempo: il drink te lo dovevi preparare o prima o dopo la telefonata, e questo era giusto ed era bello, perché lasciava a ogni rituale un suo spazio esclusivo.
Ancora oggi, nostalgica di quei tempi, tendo ad avvicinarmi ai minibar con le mani e la mente libere da altro. E proprio per onorare questa ritualità, e questa solitudine, dopo la separazione mi sono regalata un minibar da casa: ho scelto il modello più classico, direttamente dalla copertina del catalogo, e l’ho fatto installare nella mia camera da letto. Ci ho messo pochissimo a capire che era stato un errore: il minibar deve stare in albergo, dev’essere l’abbraccio familiare in una stanza sconosciuta, l’amico in terra straniera, l’oasi nel deserto. In casa, almeno a me, fa l’effetto opposto: porta con sé lo spaesamento, una solitudine, quel senso di estraneità che è nato per fugare. E poi la quotidianità lo ammazza, averlo sempre lì e doverlo riempire tu stesso (e non misteriose cameriere piene di pietas) lo banalizza, lo personalizza: non va.
Il minibar è come l’amore ideale, deve stare a distanza e lasciarsi ricordare o immaginare.
Forse è arrivato il momento di dirlo, a me stessa e a quelli che alle cene dove non ho nessuna voglia di andare mi chiedono che cosa faccio nella vita: «Io sono un esperto mondiale di minibar». Seguirebbe un silenzio venato di sorrisi, e un po’ di ansia. Si chiederebbero in quale metafora io mi muova, se è un eufemismo per non dichiararmi alcolizzata, e di sicuro qualche non troppo giovane ragazza, davanti a me, ieraticamente dichiarerebbe: «Ma il minibar è morto, è finito. Non lo usa più nessuno, li stanno levando dagli alberghi».
Ci risiamo: ho già sentito questa solfa, e in effetti tra il 2012 e il 2017 si rilevò un calo impressionante nelle vendite. Le motivazioni addotte furono varie: il consumo da minibar è troppo caro, non è ecologico, la gente preferisce socializzare nei bar delle lobbies, è antieconomico per gli alberghi perché la gente mente. Su questo siamo tutti d’accordo: il minibar è un catalizzatore, anzi un fabbricatore di menzogne. Tutti vacilliamo al momento del check out, quando ci viene chiesto: «Preso qualcosa dal minibar?». È pavloviano, si mente, tanto figurati se vengono a prenderti, e anche chi vuole dire la verità, chi si concentra davvero, alla fine dimentica almeno un’acqua naturale. Il minibar è così: o non lo apri per partito preso, o finirai col mentire. La tecnologia ha tentato di correggere questa umana debolezza inventando il minibar computerizzato, che rileva il consumo di un articolo appena viene tolto e ne addebita il costo direttamente sul conto della stanza. Il suo ideatore, Bruno Agrario, CEO della Bartech Systems International, l’ha definito «il carcere di massima sicurezza per soda e caramelle», ma il problema è che funziona male, non solo che toglie la poesia, perché l’addebito avviene anche nel caso in cui la lattina o bottiglietta venga semplicemente spostata, non necessariamente consumata. E così si ritorna a bomba nel regno della menzogna (del cliente) o dell’incertezza (dell’albergo). Anche perché spostare le bottigliette nel minibar per studiarne il contenuto si fa sempre, a prescindere dal consumo. O no?
La verità è che il declino del minibar è stato solo momentaneo perché pensare un modo senza minibar è impossibile, e infatti la pandemia Covid lo ha rilanciato, garantendo ai clienti la possibilità di dissetarsi in isolamento, lontano dalle folle sputacchianti degli avventori dei bar e delle lobbies degli alberghi. Subito dopo o contemporaneamente, non so, la gestione politica della solitudine ha coinvolto anche i minibar: Susan Buckley, vice presidente del reparto food & beverage della catena americana Ace Hotels, è stata la prima a proporre il minibar politicamente corretto, che al posto delle bevande tradizionali offre prodotti locali selezionati da aziende composte da membri sotto-rappresentati della società, per esempio un gin prodotto da un’azienda di sole donne albine e orsetti di gomma gluten-free confezionati da operatori celiaci. Su questa scia, per esempio, i minibar della California sono stati completamente invasi dalle noccioline al wasabi, a testimonianza della forte presenza nippo-vegana nell’area.
Questa politica del minibar politicamente corretto dovrebbe, secondo le intenzioni, avvicinare il turista alla realtà del territorio e divulgare consapevolezza sociale, oltre a far scoprire al consumatore prodotti nuovi e peculiari. Io dissento, e concordo con il già citato Bruno Agrario, che a questo punto vorrei conoscere, quando dice che il suo minibar ideale non si piega alle mode o politiche del momento, ma propone all’avventore esattamente ciò che si aspetta: «Il cuore vuole ciò che già conosce e per cui smania» (cit Agrario, da un’intervista del 2014). Coca-Cola, Schweppes, gin Beefeater, whisky J&B, Absolut Vodka e banali patatine. What else?.
D’altro canto, anche il trend paupero-individualistico-salutistico ha influito, e si trovano sempre più spesso minibar vuoti. Due bottigliette d’acqua, una naturale e una gasata, e via andare. Come a dire: di sete non puoi morire, per il resto eccoti il contenitore refrigerato, riempilo tu, con i tuoi gusti, le tue possibilità economiche, le tue allergie. Come se presupporre di conoscere i gusti del cliente medio fosse un intollerabile insulto, una banalizzazione criminale dell’individuo. A me pare che un minibar vuoto sia come una federa senza cuscino, una doccia senza soffione, un bagno senza sciacquone, e che oltretutto sia spiritualmente sbagliato: per quanto oggi si celebri l’autodeterminazione nei consumi, nessuno ha voglia di rifornirsi il minibar da solo. Si va in vacanza perché qualcuno, un’entità il più possibile astratta e prossima al divino, si occupi di noi, indovinando, presagendo ed esaudendo i nostri più reconditi desideri, anche quelli di cui non siamo consapevoli. Il punto è che forse l’apparato stesso dei nostri desideri sta sbandando, è disorientato fino all’essere, appunto, vuoto.
E proprio mentre penso alla crisi identitaria del nostro desiderio, così ben descritta delle evoluzioni e involuzioni dei minibar, mi sono ricordata di quella volta in cui a una delle cene a cui non ho nessuna voglia di andare un tizio, intuendo la mia passione, o forse per mettermi alla prova, mi ha chiesto: «Ho letto da qualche parte che esiste un albergo dove hanno inventato il megabar. Ne sai niente?». Un brivido mi è corso lungo la schiena: sapevo tutto di questa storia, ovviamente, ma speravo che la voce non fosse girata. Si tratta del prestigioso W Hotel di Londra, in pancia alla catena Marriott, che nelle suites “WOW” e “E-WOW” fornisce, a richiesta, il servizio di megabar: un grande cubo tipo cabina-armadio su ruote, che viene recapitato in camera e aperto. Al suo interno c’è la riproduzione di un vero e proprio bar, con frigo, freezer, bancone, bicchieri, mixer, sgabelli retrattili, palla stroboscopica, impianto stereo e luci. Con un sovrapprezzo si può avere anche il barman.
Mentre confessavo questi dettagli al commensale, con i dovuti tecnicismi per fargli pesare il mio status di esperto, mi è salito uno spleen disperato: più lui si dimostrava estasiato da questa aberrazione, più io mi sentivo perduta. Che senso ha riprodurre un bar – luogo di incontri casuali e socializzazione per antonomasia – nella solitudine perfetta di una stanza d’albergo? Il minibar è un sussurro, la miniaturizzazione di un desiderio, una festa segreta con sé stessi di cui nessuno può accorgersi. L’idea stessa del megabar trasforma un piccolo incanto in grande inganno, ammantando oltretutto il rituale di un drink solitario di un’esclusività proibitiva (le suddette suite si vendono a circa mille euro a notte e il megabar si può avere per un megaextra di altri mille euro). Ma non credo di voler condividere il mio magone, sembrerei stramba, o affetta da invidia sociale o peggio refrattaria al progresso, qualunque cosa s’intenda. Quanto al mio minibar personale, quello che avevo fatto installare in camera mia e che da subito mi ha messo a disagio, l’ho spostato in bagno e l’ho riempito di creme. Ma questa è un’altra storia.