Treccani - Dizionario biografico, 28 settembre 2024
D’Annunzio e lo sport
Il binomio Gabriele d’Annunzio e sport è stato sempre profondo e costante, compreso pure il giornalismo sportivo, che d’Annunzio coltivò in anni in cui tanti altri scrittori e poeti invece snobbavano. In prima persona, D’Annunzio praticò diverse discipline sportive (corsa, boxe, nuoto, equitazione, calcio, atletica, scherma, golf, bocce, tennis, ciclismo, canottaggio, e altro ancora). Nel 1922, quando aveva già 59 anni, la «Gazzetta dello Sport» lo proclamò «atleta dell’anno». Il rapporto tra d’Annunzio e lo sport iniziò sin dai primissimi anni dell’infanzia, allorquando, cioè, spinto dal padre, egli si allenava nelle acque dell’Adriatico, o in quelle del fiume Pescara, per affrontare le sue prime gare di nuoto. Durante l’occupazione di Fiume (1919-1920), d’Annunzio si fece promotore della cultura sportiva, contribuendo a elaborare e a diffondere il “mito della salute”, e quello della prontezza fisica, che, l’Italia fascista (e pre-fascista), avrebbe fatto proprio dell’agonismo e della lotta, sia metaforicamente intesa, che letteralmente, purtroppo, una vera e propria ideologia, della nuova nazione combattente.
Giocare con lo scudetto tricolore
Fu proprio in quella circostanza che il poeta-soldato ideò e fece appuntare sulla maglia azzurra della formazione di calcio della sua milizia fiumana lo scudetto tricolore, che, poi, a partire dal 1947, precisamente, dal 27 aprile 1947, in occasione della partita di calcio tra la Nazionale italiana e la Nazionale svizzera, disputata a Firenze, la formazione azzurra avrebbe adottato in modo ufficiale. Si trattava di una novità assoluta, in quanto, in precedenza, la squadra nazionale italiana aveva sempre avuto sulla maglia azzurra, come emblema, uno scudo crociato bianco e rosso. Sia la prima partita, che la seconda, quella di ritorno, disputate entrambe a Fiume, a febbraio la prima, e nel mese di maggio la seconda, furono vinte dalla squadra locale (con i risultati di 1 a 0, e di 2 a 1). Celeberrimo il discorso che d’Annunzio tenne ai suoi calciatori, in occasione della seconda partita:
Questo campo è un campo di combattenti, questo giuoco è un giuoco di combattenti. In una vecchia cronaca fiorentina si dice del calcio come gioco proprio e antico della città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata. I campioni di tutti i reparti qui si addestrano alla rapidità, all’agilità, al colpo d’occhio sicuro, al coraggio sprezzante, alla lunga lena. Qui si foggiano i muscoli forti e gli animi grandi. Il gioco a guisa di battaglia ordinata è la preparazione all’assalto d’armi. Perciò io non assisto alla festa di oggi se non come combattente capo di combattenti. Pronti? Io grido. E voi come mi rispondete? Pronti!
Come si può notare, anche da questi pochi passaggi, intrisi di lessico bellico, d’Annunzio vedeva nella pratica del «giuoco» calcio una metafora della vita (e della guerra), occasione di scontro agonico tra «animi grandi»: la partita di calcio come «battaglia ordinata». È cosa nota, per esempio, che nel rugby, la metodologia di gioco (e d’attacco) prevalente sia una tattica derivata da alcune tecniche belliche dell’esercito inglese. Orbene, per quanto riguarda, allora, la tecnica italiana del cosiddetto “catenaccio”, noto anche come “gioco all’italiana”, che consiste in uno schema tattico di giuoco, che fu praticato tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del Novecento, molto probabilmente, essa è da mettere in relazione con la testuggine dell’esercito romano, disposizione di difesa dei soldati romani. Il maggior interprete di questa tattica di giuoco calcio, in Italia, fu, indubbiamente, Nereo Rocco (1912-1979), che condusse il Milan, in quegli anni, alla conquista di due campionati nazionali, e di molti riconoscimenti internazionali (come la Coppa dei Campioni, la Coppa delle Coppe, etc). Curiosità per curiosità, annoto, pure, che l’Inter, squadra milanese e rivale del Milan, guidata in quegli stessi anni dal tecnico Helenio Herrera, adottò proprio lo schema del catenaccio, conquistando, a sua volta, tre campionati italiani, e molti riconoscimenti internazionali.
Dorando Petri, il maratoneta
A Gabriele d’Annunzio si deve pure il neologismo maratoneta, inventato per celebrare le imprese del podista italiano Dorando Petri (1885-1942), mezzofondista, che è passato alla storia per l’infelice conclusione della maratona di Londra, del 1908, allorquando, si vide revocare la medaglia d’oro, perché aveva tagliato il traguardo sorretto a braccio, negli ultimi metri, da un giudice di gara. Episodio tanto sfortunato, quanto epico. Sempre durante la reggenza di Fiume, d’Annunzio stese il testo di una “Carta” costituzionale dello sport, nella quale aveva previsto l’istituzione di un vero e proprio «Provveditorato allo sport», che si occupasse, cioè, di giuochi e di spettacoli, e che avesse anche l’autorità di reperire «campo e palestra». Per d’Annunzio, la prontezza fisica, l’esercizio del muscolo, abbinato all’esercizio dello spirito, mai disgiunto da una sana concezione del piacere del corpo, erano da praticare (e da professare), per dare sostanza all’antico adagio mens sana in corpore sano. La riforma scolastica voluta da Francesco De Sanctis, nel 1878, Ministro dell’istruzione pubblica, introdusse nella scuola italiana la ginnastica come materia d’insegnamento (suscitando, per questo, l’opposizione dei professori delle cosiddette discipline “nobili”). In quegli anni, in Italia, solo l’aristocrazia e una piccola fetta privilegiata della ricca borghesia andavano orgogliosamente a cavallo, praticavano la caccia, tiravano di scherma, e seguivano (sia pur passivamente, da spettatori) le gare sportive. L’intervento del Ministro De Sanctis, quindi, introducendo l’ora di ginnastica, andava nella direzione di democratizzare lo sport e, soprattutto, di allargare la base sociale della pratica sportiva. Desidero, qui, ricordare che nel 1892, cioè, qualche anno dopo, rispetto alla riforma desanctisiana, lo scrittore Edmondo De Amicis (1846-1908), l’autore del celeberrimo Cuore, con il romanzo Amore e ginnastica, avrebbe fornito un quadro della coeva scuola italiana totalmente inedito, e differente finanche rispetto al suo stesso precedente romanzo. In Amore e ginnastica, infatti, le provocazioni di De Amicis erano più d’una, a cominciare dal ruolo assegnato, nel romanzo (e nella società), alla ginnastica, come disciplina cardine all’interno del nuovo sistema formativo italiano; inoltre, dettaglio non di secondo livello, nel romanzo di De Amicis, a insegnare tale nuova disciplina lo scrittore aveva messo una donna (la maestra Pedani), e non un uomo. Una donna, e, per giunta, anche bella, visto che i colleghi maschi la “spiavano”, negli spogliatoi della palestra scolastica. Ulteriore provocazione giungeva dal fatto che la maestra Pedani condividesse l’appartamento con un’amica e collega (lasciando intendere che tra le due vi fosse qualcosa in più d’un semplice legame d’amicizia, e di colleganza professionale). Il romanzo Amore e ginnastica, oggi, meriterebbe una ri-lettura più approfondita, e lo stesso De Amicis, nella considerazione generale, non andrebbe schiacciato (e liquidato) unicamente come l’autore di Cuore. Lo sport, in quell’Italia (e, poi, anche nell’Italia del ventennio fascista), non serviva soltanto per curare il benessere fisico, ma era anche inteso come vettore e strumento per garantire alla Patria i muscoli, per le guerre (ovviamente, i muscoli di esponenti della classe popolare, i muscoli dei disperati di tutte le epoche, da mandare al macello, nelle imminenti guerre coloniali, per la rinascita dell’impero). Basti pensare alle denominazioni più diffuse, in quegli anni, delle società ginniche e sportive: «Pro Patria», «Pro Italia», «Garibaldi», e via discorrendo.
Ebbene, Gabriele d’Annunzio, in quell’Italia, era, per davvero, un’autentica eccezione, perché praticava in prima persona molte discipline sportive, come egli stesso dichiarava (con un’aggiunta ironica finale): «Nuoto, vo in gondola, faccio cavalcate di tre ore ogni sera (…) tiro di scherma, faccio la corte alle signore».
Vizi e virtù?
Questa esibizione del corpo, il suo personalissimo culto del piacere del corpo, come stile di vita, non sfuggì ai suoi contemporanei. E non sfuggì, nemmeno, a qualche collega (e amico) poeta, come Giovanni Pascoli (1855-1912), che scrisse, in un articolo, in forma di lettera aperta, apparsa sul «Marzocco», rivista letteraria fiorentina, con toni velenosi (e invidiosi): «Come potrò piacere alla gente senza un po’ di sport? Ché lo sport è ormai necessario allo scrittore, oh! più dello studio! E anzi si può dire che la letteratura sia essa tutta uno sport; una cavalcata in frack rosso (…)»
La risposta di d’Annunzio, all’amico e collega Pascoli, non si fece attendere, condita, come fu, di velenosa ironia, e con esplicito riferimento al vizietto del bere, che affliggeva Pascoli:
La piccola epistola faceta veramente non sembra tua, degna di una donnetta inacidita e pettegola (…). È noto che, tra i letterati d’Italia, io ho il gusto di cavalcare a caccia e di arrischiare il mio bel cranio contro le staccionate della Campagna romana, com’è noto che tu hai il gusto – egualmente rispettabile – di centellinare il fiasco.
Lo sport, dunque, praticato, non quello passivo, da semplice spettatore. Negli anni della sua frequenza, come studente, presso il Regio Collegio “Cicognini” di Prato, in un giudizio di fine percorso scolastico, sul rendimento relativo all’alunno d’Annunzio, appena quindicenne, si legge la seguente annotazione:
(…) questo diploma dichiara che nell’anno 1880-81 l’alunno d’Annunzio Gabriele di Pescara fu giudicato degno di piena lode nelle scuole facoltative di Lingua inglese, di Pittura, di Paesaggio e nella scuola obbligatoria di Scherma e degno di molta lode in quella di Ginnastica.
Nel 1914, d’Annunzio si trovava in Francia (per esilio volontario, in fuga da creditori piuttosto arrabbiati, e da uno stuolo di mariti, altrettanto arrabbiati, e intenzionati a bastonarlo); ebbene, costretto a restar chiuso in una stanzetta miserrima (il cosiddetto “esilio di Arcachon”), d’Annunzio si diede a scrivere, con tanto di disegnini esplicativi a margine, realizzati di suo pugno, note e suggerimenti per la pratica della ginnastica in camera, un po’ per tenere in forma il suo bel corpo, un po’ per dimenticare i debiti contratti in Italia, e le grane. Si tratta di un vero e proprio trattatello, ancora parzialmente inedito, sui movimenti a corpo libero, che meriterebbe di essere pubblicato integralmente, visto, di recente, nei mesi di lockdown da Covid-19, un po’ tutti hanno fatto pratica di esercizi fisici in camera!
Vigoressia e ideologia
Quella della cura del corpo, in d’Annunzio, era una vera e propria visione della vita, una ideologia. Nel 1921, a Gardone Riviera, dove d’Annunzio si era oramai stabilito, in quella residenza che poi verrà conosciuta come il Vittoriale degli Italiani, pensò di celebrare le acque del lago di Garda con una serie di iniziative sportive acquatiche. Proprio lì, il poeta ebbe l’idea di celebrare le acque del lago Benàco (il lago di Garda, che d’Annunzio preferiva chiamare Benàco, secondo l’antica denominazione latina, Benacus; e non, invece, Garda, che si affermò, come denominazione, in pieno Medioevo, toponimo che sta per ‘luogo di guardia’, evoluzione della voce tedesca warda). Gabriele d’Annunzio ideò un meeting idro-aviatorio, per l’aggiudicazione della «Coppa del Benàco». Il poeta si lasciò conquistare dal nuovo sport della motonautica. Nell’agosto del 1922, assistendo alle regate nazionali di canottaggio, annotò le sue emozioni in un diario, nel quale, facendo riferimento al canto XXVI dell’Inferno di Dante, e al folle volo di Ulisse, scriveva: «Il “folle volo” non è se non un’elevazione eroica. Questo auguro a tutta la giovinezza d’Italia. Alalà»
In quella circostanza, d’Annunzio volle assistere alle regate nazionali di canottaggio, nonostante fosse convalescente, per una banale, organizzate dalla «Canottieri Garda» di Salò. Raggiunse la tribuna a bordo di un motoscafo, suscitando nella folla presente grande entusiasmo. Le cronache del tempo ricordano che si lamentò pubblicamente dell’utilizzo del vocabolo “teutonico” Garda, al posto del latino Benàco, promettendo, per l’edizione successiva, di impegnarsi a lanciare l’urlo della radunata. Nelle acque di quel lago, nel 1927, d’Annunzio stesso conseguì il record mondiale di velocità in motoscafo (con 127 km orari), guidando lo scafo Alcyone, equipaggiato con due motori Isotta Fraschini, da 600 cavalli. L’esempio dannunziano fece sì che di lì a pochi anni, nel 1929, nascesse il «Club Gabriele d’Annunzio», con il motto (sempre dannunziano) «Memento Audere Semper» (‘ricorda di osare sempre’), e disegnando nel gagliardetto sette stelle dorate, in campo azzurro.
Per approfondire
Comes, S., Capitoli dannunziani, Milano, Mondadori, 1967.
Pancera, M., Vergani, G. (ed.), Il piacere del corpo. D’Annunzio e lo sport, Milano, Electa, 1999.
De Cilia, N., Pedagogia della palla ovale. Un viaggio nell’Italia del rugby, Roma, Edizioni dell’Asino, 2015.
Collina, C., Santucci, M., Il rumore dei tacchetti. Racconti di rugby nel Sannio, Sangiorgio del Sannio, Edizioni Circolo Trieste, 2016.
Giuntini, S., Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Milano, Biblion Edizioni, 2017.
Weisz, A., Molinari, A., Il giuoco del calcio, Bologna, Minerva, 2018.
Battazzi, E., Calcio liquido, Roma, 66tha2nd, 2021.
Gibellini, P., e Maiolini, E. V. (a c. di), D’Annunzio e Dante, Atti del Convegno di Studi 16 ottobre 2021, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) 2023