La Stampa, 28 settembre 2024
Intervista ad Azar Nafisi
«Se il cuore degli scrittori si ferma, è tutto finito», ha detto il romanziere Isaac Bashevis Singer parlando di una tragedia passata. «Possiamo solo provare a scriverne», ha commentato Etgar Keret osservando una tragedia presente, «Il futuro farà da sé».
La scrittrice iraniana-statunitense Azar Nafisi ha innescato la scintilla di una lotta cortese alla stupidità del potere attraverso la letteratura quando ha scritto Leggere Lolita a Teheran (Adelphi, traduzione di Roberto Serrai; adattato per il cinema da Eran Riklis in un film che verrà presentato alla prossima Festa del Cinema di Roma), e continuata con Leggere pericolosamente (Adelphi, tradotto da Anna Rusconi): una raccolta di lettere scritte per suo padre dopo la sua morte, nelle quali percorre la storia della sua resistenza, prima contro la Repubblica Islamica e poi contro il totalitarismo democratico americano. Per Nafisi la letteratura è uno strumento di sovversione, di fronte a un totalitarismo sempre più sordo e sempre più terribile. È il potere di chi non ne ha. È l’arma di chi non ne vuole usare.
Cosa può fare la letteratura?
«Penso a due dei miei autori preferiti: Margaret Atwood e James Baldwin. Entrambi parlano degli scrittori e delle scrittrici come di testimoni. Non sono politici, ma molto di più. Sono osservatori della storia mentre si sviluppa. Ecco perché i tiranni li odiano, li osteggiano, provano a cancellarli».
È sempre così?
«Certo. Pensi al passato: Hitler, Stalin, la Repubblica Islamica. I loro primi obbiettivi sono sempre stati le donne, la cultura e le minoranze: tutto ciò che non gli corrisponde, che non possono controllare perché è al di fuori della loro idea di società incatenata. È assurdo. Le uniche armi che queste categorie di persone hanno sono le parole. Non parliamo di eserciti, di minacce militari, ma di scrittori, di studenti, di donne che protestano per i propri diritti. Non girano armati, non hanno una milizia a sostenerli, non sono vere minacce».
Si è chiesta il perché?
«Credo che sia l’interrogativo che mi pongo più volte nella mia esistenza, perché è qualcosa al quale non riesco proprio a dare un senso. Ogni volta che vedo la tirannia in atto, me lo domando».
Si è data una risposta?
«Credo di sì. Le dittature si nutrono e vivono di bugie, dall’Iran agli Stati Uniti di oggi, senza eccezione. Lo si vede in tirannia e nella cosiddetta democrazia che sta eleggendo nuovamente Donald Trump: le bugie sono all’ordine del giorno. E gli scrittori, da testimoni, rivelano la verità. Quindi è la verità a essere il grande nemico dei dittatori».
Gli scrittori sono il mezzo?
«Esattamente. Sono lo strumento attraverso il quale filtra la verità. E questo è odioso per chiunque abbia intenti totalitari».
La politica mente sempre?
«Nella maggior parte dei casi, sì. Ecco perché io dico di non essere interessata alla politica, ma all’umanità. Perché attraverso l’umanità si arriva alla verità, attraverso la politica probabilmente ci si ingarbuglia in una rete più fitta di menzogne, dalla quale possono trapelare alcune verità, ma ormai troppo corrotte per essere veramente utili al bene. La giustizia può essere soggettiva, la verità no».
In che senso?
«È qualcosa che modelliamo per noi stessi. In uno stato islamico totalitario l’imposizione del velo è considerata giustizia, ma è una giustizia alla quale ci si può e ci si deve opporre. Chi è mosso da motivazioni religiose in genere è sempre animato anche da un senso di giustizia».
L’attentatore di Salman Rushdie…
«Esatto. È qualcosa che va più a fondo della politica, pesca in un reame di convinzioni profonde e radicate. Spaventose, violente».
Anche Baldwin sapeva essere violento…
«Assolutamente. Il movimento per i Diritti Civili negli Stati Uniti è da sempre diviso tra pace e violenza, che sono due forze che si contrastano per perseguire uno stesso obbiettivo che, paradossalmente, è giungere a uno stato di pace, rispetto e tolleranza».
Si può evitare la violenza?
«David Grossman lo dice in modo diretto, e anche un po’ belligerante: “Non diventiamo come i nostri nemici”. Perché innanzitutto non risolverebbe in alcun modo il problema, e poi perché generalmente sono molto più bravi a uccidere di quanto lo siamo noi, quindi vincerebbero facilmente. Quello che dobbiamo fare è comportarci come Sherazade in Le mille e una notte: portare i nemici nel nostro campo».
La retorica?
«Esatto. Tutto comincia dalle parole e se siamo fortunati finirà a parole. Oggi però le parole non hanno una grande fortuna. Guardando all’America e al futuro del mondo, che passa necessariamente dal destino del Paese, penso spesso a Primo Levi quando diceva di non aver paura dei mostri. Perché i mostri sono pochi».
Di chi bisogna aver paura?
«Delle persone comuni, che si piegano alla volontà dei mostri senza fare domande».
Di chi non si oppone?
«Di chi non ci pensa nemmeno. Non è solo chi ha paura a scendere in strada per combattere la follia di Netanyahu, per esempio, o di Hamas, ma in cuor suo sa che ciò che sta accadendo è terribile. È chi pensa che non sia poi così terribile perché il potere glielo ha fatto credere».
C’è un modo per non cadere nella trappola?
«La grande letteratura, che impone di farsi delle domande e non accetta di uscirne senza interrogarsi sulle risposte. Ecco perché è un elemento di disturbo, ecco perché scuote e non si limita a intrattenere. Ecco perché turba, non solo il signor Khomeini o il signor Trump, ma tutte le persone dotate di un animo umano. Pensi a quanti libri criticano noi, le persone ordinarie, le persone perbene, quelli che riteniamo essere i buoni e gli innocenti – penso ad esempio a Huckleberry Finn. I crimini contro l’umanità sono crimini dell’umanità».
E l’umanità ripete i propri errori…
«Se smette di ricordarli».
Ma è sufficiente ricordarli o occorre l’esperienza?
«L’esperienza diretta conta. Ero dalla parte giusta dell’opinione pubblica quando ho protestato contro la guerra in Vietnam negli anni Settanta, per esempio, ma guardando quei tempi da una certa distanza mi rendo conto di essere stata retorica, ignorante in un certo senso, arrogante: non ascoltavo. E la Repubblica Islamica mi ha insegnato che, mio dio, ero come loro. Questo mi ha spaventato, non per loro, ma per me».
È una storia che si ripete a Gaza?
«Penso che tanto il popolo israeliano quanto quello palestinese siano guidati da criminali. E il dilemma di questa gente sta nel non cadere nella tentazione di accettare Hamas o Netanyahu senza porsi domande. È così disumano che qualcuno possa portare avanti una guerra solo per salvarsi la pelle».
Ed è anche molto umano, se ci pensa…
«Istintivo, primordiale, sì. Sto pensando molto alla questione israelo-palestinese ultimamente anche perché il regista che ha diretto Leggere Lolita a Teheran è israeliano, e l’ho scelto anche per questo. È molto facile oggi non fare distinzioni tra il popolo israeliano e il suo governo, tra Hamas e il popolo palestinese. Vorrei che, almeno per quanto è in mio potere, ci fosse uno spazio nel quale il giudizio superficiale è sospeso».
È possibile?
«Nell’arte forse sì. Il poeta palestinese Mahmoud Darwish dice: “Voglio che vengano da me per la mia poesia, non per la mia terra”. Ma ogni poesia è un atto di rivolta».