La Stampa, 28 settembre 2024
Stragi familiari: vite dopo l’inferno
Sono le «anime invisibili». Le chiama così quelle come lui, come Pasquale Guadagno, che ha perso sua madre massacrata dal padre nel 2010, quando aveva 14 anni, anime abbandonate da tutti, dalla legge, dalle istituzioni, dalle forze dell’ordine, da una società indifferente al loro dolore. I figli delle donne uccise dai mariti ripartono sempre da queste assenze, dai ricordi immobili appesi nei muri, trattenuti nelle cornici di questo strazio e impressi persino nei loro vestiti consumati in tutti quei giorni passati a combattere contro l’invisibilità e il silenzio.
Non c’è solo il dolore dell’omicidio, la fatica di crescere, la terribile consapevolezza di avere un padre assassino. C’è anche la memoria che vorresti conservare, una memoria cristica che si arrampica sul calvario della vita perduta. Giacomo ha passato lunghe ore a rivedere i video della madre, uccisa quando era un bambino. «Non volevo che il suo ricordo svanisse. Perché le immagini che sbiadiscono ci fanno ancora più male». Era un modo per tenerla in vita, per illudersi di averla ancora vicina. Nel deserto della dignità scippata dai tribunali, dalle tv e dalla stampa e dall’indifferenza delle istituzioni restano solo loro due, l’orfano e la mamma perduta, abbracciati nello sfarfallio mesto di quelle immagini, quando la mamma sorrideva ancora e sembrava fluttuare in tutta quella luce, con qualche capello randagio che brillava come i filamenti di una lampadina.È per questo che Pasquale e sua sorella Anna Maria hanno fondato l’Associazione «Anime invisibili». Per restare vicino a tutti quelli come lui. «Il nostro non deve più essere un futuro da vittime», continua a ripetere.Eppure la sua è una storia terribilmente emblematica del dolore e dell’ingiustizia patiti anche dopo l’omicidio della madre. Pasquale venne affidato ai genitori dell’assassino, ed è inutile voler capire l’assurdità di una soluzione del genere. «Loro giustificavano mio padre e denigravano mia madre in maniera oscena. Mi obbligarono pure ad andare a trovarlo in carcere. Io ho ricordi di un’assistente sociale che è venuta due volte, ma mi chiedeva come stavo davanti a loro e io avevo paura a dire la verità». A 17 anni, Pasquale se ne andò e si trasferì da sua sorella che ne aveva 21. «Mi manteneva con il suo impiego. Ma non erano tanti soldi. Abbiamo sempre dovuto fare tutto da soli. Avevo bisogno come il respiro di uno psicoterapeuta e ho dovuto fare un prestito per poterci andare. Persino la pensione di mia madre per legge spettava a lui, che l’aveva uccisa. Uscì dal carcere dopo 14 anni. Durante un permesso premio ci aveva già minacciati, mi mise persino le mani addosso. Chiamammo la polizia e lui andò su tutte le furie davanti a loro: vi faccio fare la fine di vostra madre, come vi ho dato la vita ve la posso togliere. Io e mia sorella abbiamo vissuto nel terrore. Non potevamo fare molto affidamento nelle forze dell’ordine». Eppure adesso Pasquale continua a ripetere che bisogna sempre scegliere la vita, che «non dobbiamo farci seppellire dalla sofferenza e dalla pena». Il fatto è che alla fine resta sempre qualcosa dentro.Marco Sancandi aveva 23 anni quando il padre uccise sua madre e poi si sparò in testa («per fortuna», aggiunge). Un centimetro alla volta ha rimesso insieme i pezzi di un’esistenza frantumata. Si è sposato, ha divorziato, ha ritrovato l’amore, ha fatto carriera ed è diventato direttore commerciale nell’azienda dove lavora. Ha avuto un figlio che oggi ha 29 anni ed è laureato in Psicologia. «Però, nonostante tutto, quel buco senza fondo non me lo riempie nessuno. Quando è nato mio figlio ero terrorizzato che mi chiamasse papà perché quella parola mi ricorda mio padre. E ho ancora paura di tutto: del futuro, della vita, della violenza».Per le anime invisibili la violenza è una persecuzione infinita. Arriva da tutte le parti, in forme diverse. Miriam ha scoperto dalla tv che sua mamma era stata uccisa. Era dal fidanzato, hanno acceso la tv, e ha visto che scorrevano le foto di casa sua, di lei abbracciata a sua madre. Il giornalista ripeteva la parola femminicidio. Miriam era senza fiato. L’aveva uccisa lui a coltellate. Non lo chiama più suo padre. Da allora è solo «lui». Ha cambiato cognome, città, regione: «Ho scelto a caso dove andare a vivere». L’importante era andarsene il più lontano possibile.Invece, Marta ricorda il rumore del colpo di pistola. Era convinta che venisse dalle scale di ferro. Aveva 5 anni. Suo fratellino, due. Vennero affidati alla zia materna, la sorella della mamma, che aveva già dei figli e dovette lasciare il lavoro per seguirli tutti. «Mia mamma non solo aveva denunciato a chiunque, – assistenti sociali, forze dell’ordine, psicoterapeuti -, l’inferno che vivevamo in casa, ma nessuno le aveva mai creduto».«Ci picchiava tutti, ci massacrava di botte, io ero finita al pronto soccorso un mucchio di volte. E quando tornavamo a casa, dovevamo stare chiusi in camera senza far rumore». I nuovi genitori non hanno potuto adottarla, perché il padre è ancora vivo. «Ho sofferto psicosi fisiche e ho cominciato a lavorare a 13 anni». Anche lei continua a vivere inseguendo il ricordo di chi non c’è più.Come Erica Patti, alla quale il marito, Pasqualino Jacovone, ha ucciso i due figli dando alle fiamme i loro cadaveri: «Io voglio solo i miei bambini, li voglio qui, ora, voglio litigare con Andrea, prendere in giro Davide perché non gli va di camminare. Ridatemi anche l’inferno di prima, le minacce, la paura, ma con loro che sono ancora qui con me».Come Pasquale Guadagno, che ricorda quella volta che sua madre è tornata a casa, e vorrebbe far ritornare indietro il tempo: «non fatelo, andate via, salvate voi stesse assieme ai vostri figli». Come Giuseppe Delmonte, che oggi racconta ai ragazzi più giovani la sua storia. Sua madre, Olga Granà, fu uccisa a colpi di ascia dal marito, Salvatore Delmonte. «Considerate che fino a sei anni per me era normale vedere mio padre picchiare mia madre». Lei trovò il coraggio di lasciarlo. «Finalmente conobbi mia madre. Era la prima volta che la vedevo ridere con i suoi figli, e quando si usciva a prendere una pizza era una festa per noi». Una settimana prima lei era andata dai carabinieri a dire «guardate che lui mi ammazza». Non la ascoltarono. E adesso? Sullo schermo appare il messaggio di una mamma sul telefonino. Il suo ricordo è una memoria che non c’è. Ma «quando ricevete questo messaggio e pensate che è una rottura di palle, perché vuole sapere dove siete e cosa fate... Ecco, voglio dirvi che quando lo ricevete, rispondete a questo messaggio. Io avrei voluto leggerlo, avrei voluto chiamarla. La vita non me l’ha concesso. Rispondete a questo messaggio. Fatelo per me. Io non posso farlo, perché una mamma non ce l’ho più». —