Corriere della Sera, 28 settembre 2024
Rocco Papaleo si racconta
«Perdere tempo mi viene facile» (Mondadori) è il titolo della sua autobiografia.
La pigrizia che ruolo gioca nel suo carattere?
«Direi che è il tratto principale, sono capace di stare giornate intere sul divano senza fare nulla».
Le pesa?
«È la cosa che più detesto di me stesso, perché conosco l’attivismo e quanto ne ricavo anche dal punto di vista della soddisfazione e dell’umore, ciò nonostante – pur sapendo che fare cose mi fa star bene – sono vittima di una pigrizia che ha l’unica spiegazione nella genetica».
Rocco Papaleo è un outsider di successo, un naïf scaltro, con la sua aria da narratore per sbaglio, sempre in bilico, sull’orlo del cornicione, a un passo da un inciampo e una caduta che non arrivano mai. È nato a Lauria, dove la Basilicata incrocia Campania e Calabria. Sua madre diceva – e i parenti lo confermavano – che era un ragazzino esuberante. A catechismo era indisciplinato. «Le formulette religiose da mandare a memoria mi annoiavano, e non solo mi distraevo, ma distraevo anche gli altri. Cazzeggiavo, la mia pazienza si era già consumata la mattina a scuola»,
Il prete come la prendeva?
«Mi diede una punizione esemplare: decise che appena lui entrava in classe per fare lezione mi sarei dovuto alzare per andare a mettermi in ginocchio in fondo all’aula, dando le spalle alla classe. Un castigo eccessivo per un ragazzino che commetteva il solo peccato di essere vivace. Oggi una punizione così farebbe scandalo sui social».
Come è proseguito il rapporto con la religione?
«Di male in peggio, non ho una grandissima simpatia per il genere. Oggi sono un pigro agnostico, ma devo ammettere che era iniziata sotto foschi auspici anche per colpa dell’arroganza delle campane: la mia stanza era a 20 metri in linea d’aria dal campanile della chiesa del paese, la domenica – l’unico giorno in cui potevo dormire – quel rumore mi squassava la stanza».
È stato eletto Mr. Liceo, poi cosa le è successo?
Sorride. «I favoriti erano due miei compagni di classe, entrambi non solo bei ragazzi, ma anche intelligenti e carismatici. Probabilmente in seguito a un patto di non belligeranza tra le due fazioni, il nome che uscì vincitore dallo spoglio dei voti fu il mio. Quell’episodio mi diede la consapevolezza di come funziona la politica, a volte una persona viene scelta per mettere d’accordo tutti. La mia nomina non scontentò nessuno, non ero invidiato, ero l’amico di tutti. Non avevo le carte per essere il più bello del liceo, anzi, ma forse ero il più simpatico».
Pino Mango era di Lagonegro, paese rivale di Lauria: perché pensava che la snobbasse?
«In realtà ho scoperto che era una persona timida, pensavo che l’accoglienza spettasse a lui perché era più grande di me e questo incrocio di timidezze generò un fraintendimento».
Quando frequentava l’università a Roma, la sera faceva il lavapiatti.
«Fu un periodo di formazione, sono entrato così nella Roma by night, lavoravo in un locale alla moda dove venivano tanti attori, li guardavo con speranza e ammirazione dalla finestrella della cucina».
Il suo primo nome è Antonio.
«Sono diventato Rocco a 26 anni, fino ad allora era solo il mio secondo nome, e in breve mi ci sono affezionato, pure troppo. C’era pure il film di Scola, Permette? Rocco Papaleo, quel nome in fondo conteneva un destino».
Quando ha scoperto di essere egocentrico?
«Ho un’innata voglia di piacere, non solo agli altri ma anche a me stesso. In modo cosciente l’ho capito all’università, nei lunghi e noiosi pomeriggi di esercitazioni di Fisica 2. Quando il professore capiva che l’attenzione calava nell’aula, mi faceva una domanda e io sparavo una cazzata, dicevo una cosa che facesse ridere la platea. Era diventata una sorta di convenzione: per convenzione facevo ridere gli altri, così mi venne l’idea di avere la dote di far ridere a comando, non solo nella spontaneità del momento».
Scrive che non sopporta quelli che parlano solo e ossessivamente di sé, quelli che ogni loro frase comincia con «io». Come si concilia con l’egocentrismo?
«Siccome detesto gli egocentrici, mi oppongo così al mio egocentrismo: la mia strategia è pormi in modo umile e apparentemente poco accentratore, una scelta che risulta conveniente. Mi definisco anche un cripto-vanitoso, che è peggio di essere vanitosi, perché lo devi nascondere con abilità. Per esempio per vestirmi devo fare ragionamenti approfonditi, devo scegliere qualcosa di bello, ma senza sembrare che l’abbia fatto apposta».
«Quasi mai ho voglia di contrariare le argomentazioni e le tesi degli altri». Perché?
«Ecco un’altra sfaccettatura della mia pigrizia, che non posso negare sfoci anche nella vigliaccheria. Contraddire mi costa troppa fatica, e così come mio padre rimango in silenzio e fingo il consenso».
È un po’ lunatico?
«Un po’? Completamente. Nell’arco di pochi minuti attraverso lo spettro dei sentimenti opposti: dall’euforia alla depressione, prima sono l’uomo più felice del mondo poi mi trovo sull’orlo del suicidio».
Scrive che Favino la fa sentire incapace.
«È un fuoriclasse. E poi è divertente, imita chiunque, anche me, fa una mia imitazione impeccabile. È talmente bravo che quando recito mi farei doppiare da lui».
Il suo Sanremo 2012 fu un successo.
«Ho sempre desiderato partecipare al Festival, perché sono figlio di una generazione che idolatrava Sanremo, in paese c’era un televisore ogni cento abitanti ed era a casa mia. Ogni volta si radunavano nella stanza da pranzo almeno 20 persone per guardarlo. Quindi non sono andato lì con snobismo, ma affascinato da quel palco. Visto da casa sembra un palco pericoloso, ma alla fine è “solo” un teatro, mi sentivo a mio agio, ci ho passato la vita in teatro».
Il conduttore era Gianni Morandi.
«Una persona speciale, mi ha messo a mio agio, non era competitivo, aveva piacere se io andavo bene, non mi faceva ombra, anzi, mi dava spago».
Cross, stop di petto, semirovesciata all’incrocio: davvero prima di addormentarsi spesso è l’ultima immagine che ha in testa?
«A 66 anni mi costa fatica confessarlo ma è così. Anche se non gioco più da tempo, il calcio mi rimbambisce, lo ammetto con un pizzico di vergogna».
Mai fatto un gol così?
«No, ma ne ho fatti alcuni eccezionali. Ricordo un pallone al limite dell’area che colpisco di esterno, ne esce una parabola piatta che va all’incrocio. Nella mia memoria è un attimo che dura un’eternità. Solo nel calcio provi una sensazione di goduria simile all’orgasmo».
Lei ha tifato prima Milan, poi Inter, quindi Napoli, ora Roma. Il tifoso infedele non esiste in natura.
«In effetti non siamo in tanti con un percorso come il mio. Ora è da tanti anni che sono della Roma, non so se cambierò, anche se dovrei, ma la sofferenza fa parte del gioco. Questa mia irrequietezza rivela una sfaccettatura importante del mio carattere rispetto all’infedeltà sentimentale, che si manifesta come una certa inconsistenza nei riguardi della serietà. Le mie storie importanti si sono sempre macchiate con il tradimento».
Ora è fidanzato?
«No, sono su piazza, anche se ormai sono un pezzo da mercatino dell’usato. Devo dire però che certi articoli vanno ancora di moda».