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 2024  settembre 28 Sabato calendario

Sperimentato congedo parentale lungo per i padri


Mammo è bello. O, quantomeno, soddisfacente. Chi l’ha detto che nel 2024, ormai quasi 2025, a casa, coi bimbi piccoli, piccolissimi, ci debba stare (solo) la donna? Son cambiati i tempi e, in un certo senso, pure i ruoli domestici: madri super impegnate, in carriera (c’è ancora da lavorarci su, anche letteralmente, ma la strada è tracciata: il tasso dell’occupazione femminile italiana è sempre in ascesa, seppur inferiore rispetto alla media europea), con mille commissioni da sbrigare; e (alcuni) padri che, vivaiddio, il tabù l’hanno rotto.

Il congedo di paternità “prolungato”? Perché no. Permette di creare un legame famigliare ancora più forte (e soprattutto nei primi mesi di vita del bambino), fa bene all’umore, fa bene persino alla famiglia (perché la ridistribuzione del carico di lavoro domestico fa vivere tutti più serenamente), cosa non secoondaria non fa male al portafogli e, sorpresa, non incide sull’azienda che lo concede la quale basta che si organizzi un tantinello e non deve neanche ricorrere alle sostituzioni in ufficio.
Signori (e anzitutto signore) l’attimo è da cogliere. Anche perché sulla questione l’Italia non è che sia proprio all’avanguardia: attualmente il congedo di maternità, da noi, dura almeno cinque mesi e quello di paternità solo dieci giorni (non è così nei principali Paesi europei); ci siamo inventati la formula “parentale”, è vero, ma è finita per diventare una copia di quel che già c’era (ossia sulla carta vale per entrambi i genitori, ma nella pratica viene usata quasi in toto dalle mamme) e se ci si dovesse addentrare nei meandri del lavoro autonomo, usignur, è meglio neanche pensarci.
Ci hanno pensato, invece, 22 grandi realtà tricolori (sempre viva il welfare aziendale) che hanno sperimentato, nell’ultimo periodo, il congedo “lungo” per i neo-papà dipendenti: li hanno retribuiti fino all’ultimo centesimo della normale busta paga e hanno concesso loro di stare a casa ben oltre i dieci dì previsti dalla normativa nazionale, cioè per un lasso di tempo che andava da un minimo di una settimana a un massimo di 26 (che fanno sei mesi) e con una media intorno alle 8,6 settimane (quindi ben più di due mesi).
Diciamocelo subito, è andata bene. È andata che hanno scelto di usufruire di questa opportunità in massima parte i padri più giovani (i trentenni hanno partecipato al 75% e i quarantenni al 65%) e non ce n’è uno che se ne sia pentito: al punto che uno su tre ha affermato di non voler più lavorare per aziende che non consentano politiche simili, costi quel che costi e anche se la rinuncia è a un aumento di stipendio. Semmai c’è chi, tra i colleghi, è rimasto un po’ “invidioso” (il 96% è già pronto a fare altrettanto).
I numeri, le percentuali, sono del centro studi Tortuga che in questi giorni ha presentato alla Camera il suo rapporto su questa esperienza, speriamo, apripista (e che, tra parentesi, ha riguardato aziende come Barilla e Gucci, Lamborghini e Lavazza, Nestlè e Unicredit).
L’87% di chi ha usufruito del congedo “prolungato” l’ha fatto per stare più vicino alla famiglia, l’81% per essere più presente nella vita del proprio figlio, l’87% per supportare la propria partner nel primo anno di vita del bambino e la quota di adesione è stata, in media, del 71%, che è un numero significativo perché è superiore a quella (sempre mediana) del congedo nazionale dell’Inps. Chi, invece, ha deciso di farne a meno l’ha fatto al 54% per un possibile impatto negativo sulla carriera.
Eppure è proprio a livello aziendale che la fotografia è importante: il 63% delle ditte coinvolte è riuscita a gestire l’assenza del suo sottoposto senza costi aggiuntivi (quindi, semplicemente, con un’opera di riorganizzazione interna che, in qualche caso, è stata persino un passo in avanti in termini di produttività). Nella stessa direzione va il progetto europeo 4e-parent che ha già sottoposto, trasversalmente, alle varie forze politiche un pacchetto di misure in vista della legge di Bilancio del 2025.