La Stampa, 27 settembre 2024
Parla Andrea Carnevale, scampato a una strage in famiglia
Andrea Carnevale aveva 14 anni quando il padre impugnò un’accetta e uccise sua madre vicino casa, a Monte San Biagio, un paese in provincia di Latina. L’uomo, dopo cinque anni di detenzione in un manicomio criminale, si è poi suicidato davanti a lui nella stessa casa, dopo averlo aggredito.
L’ex giocatore di Napoli e Nazionale, attuale dirigente dell’Udinese, all’epoca era coetaneo del ragazzino sopravvissuto alla strage familiare di Nuoro, il 14enne che ha visto cadere di fianco a sé la mamma, un fratello e la sorella sotto i colpi di pistola del genitore. Per aver vissuto un’esperienza analoga, capisce bene cosa si può sentire di fronte a una tragedia così immane.
Come ha reagito quando è capitato a lei?
«La mia fortuna è stata che mi sono dato da fare in tutto quello che potevo, anche perché eravamo due fratelli e cinque sorelle, tutti molto giovani, e volevo aiutare. Lavoravo di giorno e mi allenavo di sera, dato che giocavo già a calcio e la mia famiglia era povera. Ho fatto di tutto: meccanico, fabbro, operaio in segheria. La tragedia non mi ha spezzato moralmente, ho chiuso dolore e rabbia dentro un forziere e li ho usati per darmi forza».
Che cosa direbbe oggi a questo ragazzo?
«Il mio invito ai ragazzi che possono avere la tentazione di buttarsi via davanti a queste tragedie è di cercare di reagire, anche se è dura, molto dura. Quando mia madre è stata uccisa mi sono messo a testa bassa e sono andato avanti nonostante il dolore: sapevo già che sarei diventato un calciatore, era il mio obiettivo».
Il 14enne di Nuoro però si ritrova del tutto solo e in una società molto diversa rispetto a quella di cinquant’anni fa, pensa che possa bastare?
«Me ne rendo conto e so che è difficilissimo, ma il fatto è che uno deve farsene una ragione. Sono sempre stato realistico e penso che la realtà la devi accettare, per quanto terribile. La presenza delle mie sorelle e di mio fratello è stata importante, ma di fatto ho dovuto fare da solo. Ricordo che il paese di Monte San Biagio fece una colletta per farci andare avanti, credo che Nuoro ora dovrebbe aiutare questo ragazzo in ogni modo: a livello psicologico, economico, per la scuola o il lavoro. Quando manca la famiglia è la comunità che deve intervenire».
Cosa pensa dell’ultima strage in famiglia?
«È tremendo quello che sento negli ultimi tempi e non capisco come possa succedere. Un tempo i padri ammazzavano le madri, com’è successo a me, ma ora vengono colpiti anche i figli, e tutto questo è orrendo. Incredibile che nel 2024 accadano queste cose».
Come andò nel suo caso? C’erano stati segnali che facessero temere un epilogo così violento?
«I segnali c’erano tutti, perché mio padre, che era tornato a casa dopo un anno passato a lavorare in Germania come operaio nelle ferrovie, ha cominciato a mostrarsi sempre più strano e spaesato, e poi a picchiare nostra madre davanti a noi, anche mentre cenavamo insieme la sera. Poteva farlo in qualsiasi momento. Andai dai carabinieri più volte per sentirmi dire che se non vedevano il sangue non potevano farci niente… A casa c’era sempre un clima di terrore, perché da un momento all’altro diventava violento, soprattutto verso mia mamma, che subiva questi scatti d’ira. Per anni mia madre ha preso schiaffi e botte davanti a noi».
È stato difficile chiedere aiuto ai carabinieri?
«Sì, era un paese piccolo, c’era senso di vergogna, oltre alla paura di mia madre che mio padre venisse a saperlo. Si teneva un po’ tutto nascosto. Mia mamma era una donna per bene, ma mio padre si era fissato con l’idea che lo tradisse, una pazzia che si verifica anche oggi. Eppure il maresciallo, in caserma, fu capace di dire che finché non vedeva il sangue non poteva intervenire».
E il sangue purtroppo si è visto.
«Una mattina mio padre si è svegliato, ha preso l’accetta ed è andato ad ammazzare mia madre mentre stava lavando i panni al fiume vicino casa. Una delle mie sorelle era presente, io stavo giocando a pallone lì vicino. Ho raccolto il cervello di mia mamma nel fiume e l’ho portato alla caserma: “Hai visto che poi è successo?”, ho detto al maresciallo. “Quante volte sono venuto qui, adesso il sangue lo vedi”. Oggi però non ho rancore per nessuno: mio padre era un uomo malato che non è stato curato».
Lei è sempre stato molto riservato su questa vicenda, che cosa le ha fatto cambiare idea?
«È giusto divulgare, voglio aiutare a far sì che cose del genere non si ripetano e fare sensibilizzazione. A Milano l’associazione Telefono Donna mi vorrebbe come testimonial, sto valutando la proposta perché non so come conciliarla col mio lavoro. Hanno anche proposto di fare una docuserie sulla mia storia. Alle mie figlie dico sempre: la prima volta che un fidanzato o un marito alza una mano su di voi, dovete lasciarlo. Alla seconda non ci dovete arrivare, perché quello lo rifarà, sicuro al cento per cento».