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 2024  settembre 27 Venerdì calendario

Deborah Compagnoni tra sport e amori

«Mi era venuta voglia di scrivere: ho scelto un argomento di cui vorrei leggere più spesso». Pensi allo sci, a quell’esercizio di immedesimazione con il bianco in cui Deborah Compagnoni, classe 1970, inventrice delle curve larghe dipinte con grazia infinita e campionessa di professione, l’urlo dello sport italiano più famoso dopo quello di Marco Tardelli (legamento del ginocchio sinistro saltato in gigante il giorno dopo l’oro in SuperG ai Giochi di Albertville ‘92), era maestra.
Dodici anni di pettorali, scioline, gare (44 podi in Coppa del Mondo), medaglie (quattro olimpiche, tre mondiali), neve ed emozioni. E invece no. «La gente ha bisogno di storie autentiche, che riconnettano con le radici più profonde». Deborah ha mandato in libreria un testo garbato in tempi sgarbati, morbido come lei. E quindi, per questo andamento controcorrente, a suo modo rivoluzionario. Perché è scrivendo della caccia alla vipera con i fratelli, del profumo della polenta sul fuoco alla Baita Fiorita, l’albergo di famiglia a Santa Caterina Valfurva, delle estati a Venezia dai nonni, che racconta il suo mondo interiore.
Esistono ancora infanzie come la sua, Deborah?

«Me lo chiedo anch’io ma non volevo la biografia classica per dire per l’ennesima volta le cose che tutti già sanno. Alle mie storie di bambina sono affezionata. Se diventassero le favole della buona notte di qualcuno, sarei contenta».La dedica è per i suoi tre ragazzi e per le due nipotine, figlie di suo fratello Jacopo, travolto da una valanga il 16 dicembre 2021.«Virginia e Carolina mi chiedevano sempre: zia, raccontaci una storia. Hanno 7 e 5 anni, vivono in montagna. Come i miei figli, amano moltissimo Pippi Calzelunghe perché è vera».

Il dolore per un lutto, con il tempo, si trasforma?


«Se l’approccio è giusto, il tempo aiuta. Jacopo è morto facendo ciò che amava di più. Questo pensiero permette di dare un senso alle cose. La dedica alle nipotine è un pretesto per ricordarlo: era dell’81, troppo piccolo per partecipare alle mie avventure di bambina. Quando è nato, il dito nel tritacarne l’avevo già messo. È stato più presente dopo, alle gare. Mamma Adele ha i suoi alti e bassi, ma è donna di montagna: ne conosce le leggi. Jacopo l’aveva convinta a fare escursioni insieme: tra loro si era instaurata una connessione forte».

È stata una bambina felice in quanto libera?

«Molto. A 3-4 anni facevo cose che oggi non sarebbero più permesse dai genitori. Di certo non nelle grandi città, forse nemmeno in montagna. Avevo un’intelligenza istintiva e godevo di un’autonomia totale. Io, Yuri e Jacopo siamo cresciuti indipendenti grazie al contesto. Vivevamo in un albergo, ce la svignavamo continuamente. E fuori c’era il gioco più bello: la natura».

A 10 anni già esercitava il pensiero creativo: da grande vorrei fare le gare di sci e dipingere, scriveva in un tema delle scuole elementari. Desideri realizzati entrambi


«Credo molto nella forza dei sogni perseguiti senza mettersi un’eccessiva pressione. Erano anni in cui i mental coach e il lavoro sulla mente non esistevano. Oggi è tutto così iper-specializzato, troppo. Oggi i social ti informano su qualsiasi argomento e i tutorial su YouTube ti insegnano ogni cosa. Invece bisogna imparare a sapersi gestire da soli. Anche lo sport professionistico è troppo esasperato».

L’equivalenza passione-ossessione, in effetti, sembra un po’ sfuggita di mano.


«Lo sport non è solo agonismo e i figli vanno ascoltati, non pressati perché ottengano il risultato. Ai miei tempi i coach della mente non servivano perché non esistevano le aspettative che ci sono oggi. Pretendiamo l’oro olimpico da ragazzi a cui alle elementari non è stata insegnata nemmeno la capriola. Non è giusto considerare l’attività motoria una materia di importanza minore. Vanno inserite più ore nella scuola dell’obbligo: solo così i bambini e le bambine potranno avere pari opportunità da grandi e nel frattempo, magari, perderanno meno tempo sui social».

Poi c’è Jannik Sinner, bravo in due sport, sci e tennis.


«A San Candido sono bene organizzati: i turisti che frequentano l’Alto Adige vogliono giocare a tennis, hanno i campi. Alberto Tomba e Isolde Kostner erano bravissimi con la racchetta: i passetti, gli spostamenti laterali, l’indipendenza di gambe sono tutte eredità dello sci, che prevede una preparazione multi-sport. A secco alleni destrezza, rapidità, forza. Poi Jannik è un fenomeno, chiaro».

Lei dove vive, Deborah?


«Tra il Veneto e la Valtellina, dove sono nata. Quando torno in montagna entro in una dimensione diversa, che mi fa stare bene. Il richiamo della mia terra lo sento molto: è il richiamo della memoria. A Santa Caterina ho casa a 50 metri dall’albergo in cui sono cresciuta, la mia ex cameretta è diventata una stanza. Nelle vetrine del bar sono custodite le coppe, i primi scietti azzurri sono in un armadietto: anche i miei figli e le nipotine hanno iniziato con quei pezzi di plastica colorata. Le medaglie, invece, le ho io. Ma non sono legata alle cose materiali: ho capito che lo star bene dipende da altro».

Un cimelio che non vorrebbe mai smarrire?

«Gli sci di Albertville e Nagano, esposti al 43° piano della Fondazione Milano-Cortina. E Bubu, l’orsetto di peluche che mi regalò il nonno».

Un ricordo da tramandare ai posteri?

«La raccolta dei rifiuti, una sensibilità collettiva che una volta non c’era. Lo racconto in una storia del libro. Papà già nel lontano 1979 la sentiva molto: ai figli la insegnò come se fosse un gioco e noi, a nostra volta, abbiamo passato l’abitudine a figli e nipoti. Il senso era far capire a noi bambini che un piccolo gesto pratico poteva segnare un grande cambiamento per l’ambiente che ci circonda. Il futuro dei luoghi passa attraverso la preservazione».

Il profumo dell’infanzia che la proietta indietro in un attimo?


«Il fieno bagnato la mattina d’estate: viene tagliato presto, prima che faccia troppo caldo. E la polenta di casa, quella vera, fatta sulla stufa. Quando si bruciacchia un po’, restituisce l’odore di baita. La memoria del gusto e dell’olfatto è potentissima».

Parliamo d’amore?


«Dobbiamo proprio?».

Possiamo, è diverso

.«Della vita a Treviso non cancello niente. Prendo tutto, a cominciare da tre figli amatissimi. Poi le cose, tutte le cose, finiscono. Michele fa la guida alpina. Con lui ritorno alle mie origini, alle radici della mia storia: papà Giorgio, mio fratello Jacopo, gli zii e il nonno, generazioni di guide alpine hanno attraversato per trent’anni la famiglia Compagnoni. Con Michele sono tornata in montagna. Non solo per sciare, per fare altre attività nella natura: sci alpinismo, trekking, arrampicata. Sport e aria aperta: la mia dimensione. Non siamo fanatici: nulla di ciò a cui ci dedichiamo è prestazionale».

L’amore da adulti è diverso? E, se sì, come?

«Meno farfalle nello stomaco, più contenuti. Michele è del Cadore, l’ho conosciuto facendo sci alpinismo: era la mia guida. Mi ha fatto scoprire cose nuove, permettendomi di tornare allo stile di vita di quando ero bambina. Senza postare nulla sui social. La mia condivisione non passa dall’esibizione. Le regole non mi sono mai piaciute ma certi valori sono fondamentali. L’amore adulto consiste nell’allineamento tra età e radici comuni. Ha meno aspettative e tumulti però si poggia su un equilibrio più stabile».

Che messaggio di sé vorrebbe che passasse attraverso il libro?

«Un appello al ritorno all’autenticità, con meno condizionamenti e meno obblighi di essere a tutti i costi bravi, performanti, interconnessi con il rischio di perdersi per strada la bellezza della realtà. Non mi vergogno a dirlo: la semplicità è un valore».