Corriere della Sera, 26 settembre 2024
Intervista ad Alessandra Ferruzzi
Figlia di Serafino Ferruzzi e cognata di Raul Gardini, Alessandra non poteva avere una vita normale. L’impero industriale, le tragedie, la dynasty. Lei era la piccola di casa quando la casa brillava e quel nome, Ferruzzi, significava potere e ricchezza. Suo padre Serafino, partito da una fattoria, aveva creato un impero agroindustriale di dimensioni mondiali capace di sfidare i colossi internazionali del settore. In Italia era «l’uomo più liquido», in America «mister Miliardo»: mille, duemila, tremila miliardi, nessuno sapeva esattamente a quanto ammontasse il patrimonio ma erano valori da capogiro. Poi la morte a 71 anni, improvvisa: 10 dicembre 1979, il suo aereo privato entra nella nebbia, perde quota e si schianta su una villetta dalle parti di Forlì.
Iniziò così l’avventura di Gardini, marito della sorella maggiore di Alessandra, Idina, il quale prese in mano il gruppo legandolo a un missile che nel giro di dieci anni lo portò sulle stelle: 90 mila dipendenti per 33 mila miliardi di fatturato. Una città. Alla vertiginosa salita è seguita però una caduta verticale sotto i colpi di Tangentopoli, culminata drammaticamente il 23 luglio 1993 quando Gardini si puntò la pistola alla tempia e premette il grilletto.
Serafino e Raul, due uomini potenti, due morti tragiche. Alle quali va aggiunta nel 1986 quella del suo primo marito, Ermanno Perdinzani, morto in un incidente di moto.
Settantenne in ottima forma, Alessandra Ferruzzi svela in questa sua prima intervista i retroscena della tumultuosa guerra familiare, industriale e giudiziaria che ha polverizzato l’impero e segnato l’Italia di quegli anni.
La incontriamo a Celerina, paesino svizzero a due passi da St Moritz, dove si trova in vacanza con il marito Carlo Sama e con Augustin e Jasmine, la coppia di governanti che li accompagna ovunque: Argentina, Formentera, Montecarlo, Ravenna, dove hanno terreni, fattorie, allevamenti e case.
Alessandra Ferruzzi, un silenzio lungo una vita. Perché ha deciso di parlare?
«Perché il tempo passa inesorabile, i figli sono ormai grandi e a loro volta genitori e vogliono sapere, fanno domande e io devo e voglio rispondere anche pubblicamente non avendo nulla da nascondere e tanto da dire».
Cioè?
«È una storia lunga. Dopo il suicidio di Raul Gardini ho vissuto anni pesantissimi: l’arresto di mio marito e di altri parenti, il gruppo Ferruzzi sull’orlo del fallimento abbandonato dalla sera alla mattina dal sistema bancario. Siamo stati travolti dai procedimenti: 156 capi di imputazione e l’inesorabile condanna già pronunciata dai media e dall’opinione pubblica. Otto anni faticosissimi: assolta da tutto. Ma il gruppo intanto era stato espropriato».
Il fallimento però non c’è stato.
«Era stato chiesto, fu rigettato dal giudice di Ravenna dopo un’approfondita perizia durata più di sei mesi che ha passato al setaccio ogni movimento finanziario e contabile. Il fallimento avrebbe mandato in miseria tutti, i Ferruzzi e anche i Gardini e, soprattutto, avrebbe disonorato la memoria di mio padre».
Il «salvataggio» avrebbe dovuto unire le due famiglie e invece con i Gardini non vi parlate da trent’anni, come mai?
«Perché tante verità non sono mai emerse e loro, non conoscendole, hanno pensato che noi avessimo delle responsabilità sulla tragedia. Io tante cose ai figli di Raul non le ho mai dette per una semplice ragione: sarebbero state troppo dure e, dopo la morte del loro padre, avrebbero aggiunto dolore al dolore. Sono legata da un profondo affetto a Eleonora, Ivan e Maria Speranza (i figli di Gardini, ndr), in particolare a Eleonora che ho sempre considerato una sorella minore».
Qual è questa dura verità?
«Raul non diceva mai nulla ai figli e nemmeno a mia sorella maggiore Idina, sua moglie. Giocava sempre a carte coperte. E così non potevano sapere che molte operazioni finanziarie da lui volute avevano indebolito drammaticamente le fondamenta del gruppo e che il debito era andato fuori controllo in modo irrimediabile».
Vicende finanziarie a parte, com’è stata la gioventù della figlia dell’uomo più ricco d’Italia?
«Felice, io ero la più piccola, nata 19 anni dopo mia sorella Idina. Mio padre si è preso sempre molto cura di me, diceva “la mia bambina” perché arrivata quando era già avanti negli anni. Anche se molto preso dal lavoro è stato presente nella mia vita, nelle scelte, a partire da quelle scolastiche».
In che senso?
«Avrei desiderato fare il liceo artistico e invece ho dovuto fare lo scientifico; mi sentivo portata per Medicina, niente da fare, ho dovuto iscrivermi a Economia e commercio. Era poi la stagione dei rapimenti, che mi ha costretta a studiare da privatista. Alla fine è comunque andata bene e la laurea mi è servita poi a difendermi dalle accuse».
Tutto cambia quel 10 dicembre 1979: l’aereo, lo schianto, la morte di suo padre...
«Quando ci penso sento ancora un dolore straziante; avevo 25 anni e mi sono sentita persa. Peraltro su quel volo dovevo esserci anch’io, di ritorno da Londra dove pensavo di accompagnarlo. Andarono e tornarono in giornata. La mattina del 10 lui mi chiamò ma io non lo sentii e partì ugualmente, pensando forse che avessi cambiato idea. Il mio cuore dice che ha voluto proteggermi dalla morte».
Che rapporto aveva con lui?
«Lo amavo profondamente, era e resterà sempre il mio eroe. Gli piaceva avermi al suo fianco e a me piaceva tanto stare con lui. Eravamo complici. Abbiamo viaggiato molto insieme attraversando Nord e Sud America. Indimenticabile fu un viaggio a New Orleans, dove mio padre, che era cittadino onorario della città con consegna delle chiavi d’oro, fece costruire imponenti silos sulla foce del Mississippi sorprendendo gli stessi operatori americani per l’audacia della location, che consentiva di risparmiare tempi preziosi nel carico e nello scarico delle merci».
Una vita privilegiata ma anche funestata di lutti. Tutto tragicamente casuale?
«A unire le tragedie, se vogliamo, c’è solo la maledizione di Ca’ Dario, il palazzo veneziano che Raul volle comprare a ogni costo nel 1986 sfidando anche la terribile fama che lo precedeva. Sette anni prima era precipitato con l’aereo mio padre, sette anni dopo si è suicidato lui e quell’anno, dopo l’acquisto, è morto anche il mio primo marito, Ermanno, in un incidente di moto. Io avevo 30 anni, era un momento di grande tensione con Raul, e io sono rimasta sola con i nostri due figli piccolissimi. Il giorno dell’incidente era uscito di casa chiedendomi di scegliere una volta per tutte se stare o meno con Raul, che mi aveva tradito, e con i miei fratelli, che mi avevano praticamente lasciata sola, o uscire dal gruppo facendomi liquidare».
In che senso Raul l’aveva tradita?
«Erano trascorsi solo cinque anni dalla morte di mio padre e lui era diventato il capo indiscusso imposto da mia sorella Idina, sua moglie. Noi fratelli all’epoca eravamo tenuti all’oscuro di quanto accadeva nel gruppo e spesso venivamo a sapere le vicende dai giornali a cose fatte. Nel 1985 Raul ci chiese di cedere tutte le partecipazioni che nostro padre ci aveva lasciato e intestato per conferirle in aumento di capitale nella Agricola Finanziaria, quotata in Borsa, in modo che con i capitali liquidi raccolti sul mercato la società potesse fare nuovi investimenti. Un progetto che avrei voluto appoggiare con alcune garanzie: chiesi di firmare un patto parasociale per tutelare semplicemente i diritti fondamentali di noi azionisti storici eredi di Serafino. Raul aveva detto sì ma dopo la firma mia e dei miei fratelli, Idina compresa, e dopo aver fatto i conferimenti, stracciò il patto e pretese e ottenne dai miei fratelli, purtroppo, una procura irrevocabile con pieni poteri!».
Dalla tragedia di suo padre inizia l’era Gardini, che prende in mano le redini del gruppo e inizia la sua galoppata: Beghin Say, Montedison, Enimont, una crescita impetuosa, anche un mare di tangenti...
«Non dimentichiamo che Raul poté fare tutto questo solo grazie al patrimonio lasciato da mio padre come garanzia alle banche. Poi, forse preso dai meccanismi del potere, si lanciò in operazioni anche discutibili, come per esempio l’acquisizione di Montedison, investimento poco ponderato visto il considerevole impegno finanziario. Infine, quasi in un delirio di onnipotenza, l’avventata speculazione sulla soia alla Borsa merci di Chicago che procurò al gruppo una ingentissima perdita, superiore a 690 miliardi di lire, come riportato anche dalla stampa (il suo fiduciario lasciò intendere che furono 450 milioni di dollari) e che Raul accollò arbitrariamente a varie società del gruppo anche attingendo al nostro patrimonio familiare, lasciatoci da nostro padre; e non ultimo, l’ostinato e forsennato tentativo di conquistare Enimont. Tutte operazioni che hanno reso drammaticamente fragile la struttura finanziaria del gruppo. Quanto alle tangenti io non ne sapevo proprio nulla. Raul mi ha sempre tenuto fuori dalla gestione, ero giovane, ero donna».
Ma con Gardini al timone il gruppo era comunque cresciuto moltissimo, di dimensione e di immagine. Non gli riconosce proprio alcun merito?
«E certo che era cresciuto tantissimo ma erano cresciuti a dismisura anche i debiti e in più non fu mai elaborato un prudente piano di dismissioni per ridurli vendendo attività non strategiche, come Morgan Stanley aveva raccomandato. Gardini ha avuto indubbiamente delle visioni industriali anticipatrici, il bioetanolo, la chimica verde. Ma per fare le plastiche biodegradabili dal mais non era certo necessario scalare la Montedison, che è costata un sacco di soldi e ha dissanguato la Ferruzzi. In sostanza ha tradito le sue stesse visioni industriali originarie, prima con Montedison che non c’entrava nulla con la chimica verde e poi con l’Enimont... Quanto poi al riconoscimento lo ebbe, accidenti se lo ebbe! Quando si arenò il suo progetto della nuova holding Gardini, perché rifiutato da me e da Arturo e Franca, Idina e Raul chiesero e ottennero dai Ferruzzi di uscire dal gruppo contro pagamento, cash!, di 505 miliardi di lire: 250 come controvalore della quota di Idina e 255 di buonuscita a Raul. Buonuscita che avrebbe dovuto essere a carico delle varie società dove Raul aveva delle cariche ma che in realtà abbiamo pagato noi tre fratelli perché lui voleva evitare le tasse... Per non parlare dei benefici della Coppa America».
Cioè?
«Pochi sanno che costò molto più, oltre 250 milioni di dollari, di ciò che è stato scritto (100-150, ndr), gravando anche questo in buona parte sul patrimonio estero familiare ereditato da noi fratelli e gestito fiduciariamente in Svizzera da Pino Berlini che prendeva ordini solo da Raul senza rendicontare nulla a noi».
Che ricordo ha di lui come cognato?
«Raul aveva 21 anni più di me e Idina 19: sono stati i miei secondi genitori. Mi portavano sempre in giro con loro fin da piccolina e io mi divertivo tanto. Raul era allegro, protettivo, con lui non mi annoiavo mai. Ero innamorata di Raul, di un amore filiale».
Alessandra la ribelle. La sua opposizione al progetto di Gardini ha portato nel 1991 alla rottura in famiglia e al siluramento di Raul dalla guida del gruppo, un po’ l’inizio della fine. Pentita?
«Se essere stata ribelle ha significato tutelare il nome di mio padre e il suo straordinario lavoro di 50 anni non sono per niente pentita. Raul, come lui stesso aveva scritto nella sua agendina privata, voleva far dimenticare, se non proprio cancellare, il nome Ferruzzi quasi gli facesse ombra, per imporre la nuova dinastia Gardini attraverso una complessa costruzione societaria da cui gli eredi di Ferruzzi venivano di fatto estromessi. Il 10 ottobre 1990 scrisse, testuale: “...decisione chiudere di essere Ferruzzi, da ora in avanti per me e per i miei figli c’è solo da rimettere... perché questo?... perché le cose si possono considerare come se fossero in ordine, così come piaceva ai vecchi. Da questa posizione per muovere verso un nuovo ordine ci vuole la gente e la voglia, quindi l’età...”».
Cosa è rimasto dell’impero Ferruzzi?
«Di concreto nulla. Rimane la memoria di mio padre, un imprenditore straordinario e al tempo stesso un uomo semplice, perbene, sempre disponibile e concreto. Lui aveva una sola parola che valeva come un contratto».
Non siete proprio sul lastrico: proprietà in Sudamerica, a Montecarlo, Formentera, Ravenna...
«Rispetto al patrimonio ereditato è davvero poca cosa, quasi niente. E poi Las Cabezas in Argentina l’abbiamo ricomprata con Carlo da Montedison».
Cosa fa oggi Alessandra Ferruzzi?
«Ho scritto un libro con mio marito che uscirà nei prossimi mesi. Lui ne ha scritto un altro con Sergio Cusani. Vorrei ringraziarlo per la fatica fatta nel rivivere la nostra storia. E poi cerco di godermi figli e nipotini. Sto invecchiando, fra due giorni ne faccio 70, ahimé. Ho organizzato una grande festa: ottanta invitati, ci sono le mie compagne di classe delle elementari, che non ho mai perso di vista, e gli amici storici di Ravenna».
Parenti?
«Certo... solo ramo Ferruzzi».