26 settembre 2024
Appunti sulla pena di morte nel Regno di Sardegna e nel Regno d’Italia
Conferenza tenuta a Cuorgnè,venerdì 30 novembre 2012, alle ore 21, in occasione della giornata internazionale contro la pena di morte, nell’ambito de “Le conferenze d’autunno 2012 – incontri del venerdì presso la chiesa della S.S. Trinità di Cuorgnè” organizzate dal CORSAC (Centro Ricerche e Studi Alto Canavese) di Cuorgnè
Introduzione – In occasione della giornata internazionale contro la pena di morte, ricordiamo che il 30 novembre 1786 è la data dell’abolizione della pena di morte nel Granducato di Toscana.
Fin dal 1764, Cesare Beccaria aveva pubblicato il suo trattato, assai celebre, “Dei delitti e delle pene”.
Quale data, riferita al Piemonte e al Regno Sardo, possiamo ricordare per dare inizio alla nostra chiacchierata?
Il 1578, data di fondazione dell’Arciconfraternita della Misericordia di Torino, nel Ducato di Savoia. L’Arciconfraternita otteneva ogni anno dal Duca la grazia per un condannato a morte e, talvolta, anche per più d’uno.
La possibilità di ottenere la grazia ducale rappresentava il vero indice dell’importanza politica della Confraternita. Mancano adeguati studi su questo periodo riferiti al Piemonte, ci si deve rifare alla “Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni” (1840) riferita alla peste del 1630 a Milano (uso della tortura nella inchiesta giudiziaria).
Le norme di legge dello stato sabaudo che regolano l’amministrazione della giustizia penale e quindi la pena di morte, nascono da un processo di consolidazione di numerosissime disposizioni di legge, molte risalenti a secoli addietro, e sono stabilite con le Regie Costituzioni del 1723, seguite dalle Regie Costituzioni del 1729.
Il re Carlo Emanuele III, a parziale modifica delle disposizioni del 1723 e del 1729, promulga, nel 1770, le Regie Costituzioni destinate ad una lunga durata: abolite nel periodo francese, sono riesumate col ritorno di casa Savoia al governo del Piemonte, e restano in vigore fino al 1839, anno del Codice Penale albertino.
Cenni sulla pena di morte prima del Codice Penale di Carlo Alberto (1839) – Nell’opera del prelato inglese Salmon, Lo Stato presente di tutti i Popoli e Paesi del Mondo, edito a Venezia nel 1740, si osserva una veduta di Torino «irta di cuspidi e di torri, chiusa in cerchi molteplici di formidabili mura. Sovra un monticello in riva al fiume ed a cavaliere della strada che conduce alla Porta, sorgono in bella simmetria due tòpie del genere [due forche], ciascuna col frutto umano che ne pende maturo.
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L’avere il disegnatore collocato così bene in vista l’accessorio non comune nei panorami, lascierebbe supporre che la sua presenza colà non fosse del tutto accidentale e precaria, ma si incontrasse spesso nel paesaggio, forse segno permanente di buon governo “per informazione e norma del personale interessato”» così scrive Alberto Viriglio nel 1898.
Le principali caratteristiche di questa normativa sono così sintetizzabili: diritto di punire basato sul principio della vendetta pubblica, pene dure, disposizioni lesive della sicurezza personale, arbitrii concessi ai magistrati nel comminare le pene, possibilità di punire la famiglia e i parenti di imputati latitanti mediante confisca generale dei beni. Tortura, tenaglie infuocate, ruota per rompere le ossa ai condannati, pena capitale sono previste per molti reati. La pena di morte e la galera perpetua sono spesso lasciate al giudizio dei giudici (discrezionalità molto ampia).
Un aspetto molto particolare di questa normativa è quello relativo ai collaboratori di giustizia.
Sono in vigore norme che promettono e concedono forti sconti di pena o anche l’impunità agli imputati che decidono di collaborare con la giustizia e rivelano le malefatte dei loro complici; questo imputato che collabora con la giustizia è detto «propalatore». Questa norma sarà assai criticata nella seconda metà dell’Ottocento, e Angelo Brofferio la definirà come il mercanteggiare del giudice con l’assassino. COMMENTO IN RIFERIMENTO AL PRESENTE!
Vi è pena di morte anche per reati di bestemmia atroce, di furto (se commesso da persona di età superiore a venti anni e di un oggetto o di somma di valore superiore alle duecento lire), di compilazione di «libelli famosi» (scritti di critica e di dileggio di persone).
L’alto numero di casi che prevedono la pena capitale ha due motivazioni:
principio di intimidazione dei non colpevoli e di pubblica vendetta contro i rei; rigida concezione della difesa della proprietà (pena di morte per i furti “domestici”).
Vediamo alcuni esempi concreti, tratti dagli Archivi della Confraternita della Misericordia di Torino:
nel 1719, l’avvocato Enrico ELIA di Poirino è decapitato (reati politici ?).
Nel 1752, Giuseppe MOSINO di Castino, matricida, dopo l’emenda, l’applicazione delle tenaglie è impiccato e il suo cadavere bruciato.
Nel 1726, Paolo DIGLIANI della Rocchetta del Taner è tenagliato, impiccato e messo in quarti.
Il 15 febbraio 1780, a Rivoli avviene l’esecuzione del grassatore Carlo ROCCO, dopo l’applicazione delle tenaglie.
Il soldato ORIS, uccisore del suo sergente è tenagliato, gli viene tagliato il pugno, poi è impiccato.
Talvolta il cadavere non subisce lo squartamento perché è ceduto alla Facoltà di Medicina.
Spettacolarità delle esecuzioni (Michel Foucault) – Per comprendere questa violenza anche sul cadavere del giustiziato occorre considerare l’approccio alla pena di morte secondo le vedute dell’ancien régime.
Nei regni assoluti non è presente la cronaca giudiziaria per la particolare impostazione dell’amministrazione della Giustizia. Lo ha bene chiarito Michel Foucault, professore di Storia dei Sistemi di Pensiero al Collège de France, autore del saggio Sorvegliare e punire. Nei regni assoluti, la messa a morte di un criminale, che attua la pubblica vendetta contro i colpevoli, deve avere caratteristiche di pubblicità, di esemplarità, di spettacolarità, funzionali al principio della prevenzione attraverso l’intimidazione degli spettatori, per l’orrore e il lugubre cerimoniale. Fa emergere il nesso ineluttabile tra il delitto e il castigo, in modo immediatamente percepibile agli occhi di quei ceti inferiori, in bilico tra il minuto illegalismo quotidiano e l’atto criminale più grave. L’esecuzione capitale è un rituale pubblico, minuzioso e accurato come tutti i grandi rituali del potere assoluto, dove la Giustizia, impersonata dal sovrano, schiaccia chi l’ha offesa, davanti ad una grande folla che assiste. Questa Giustizia è attuata con un brutale codice del dolore. Il corpo del suppliziato è un teatro dove si rappresenta la forza e il potere della Giustizia-sovrano.
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La Giustizia dell’ancien régime tanto spettacolare nel momento della esecuzione del condannato, resta segreta per tutta la durata dell’inchiesta e della ricerca delle prove. L’istruttoria è segreta, il processo è spesso celebrato in assenza dell’imputato. Soltanto la messa a morte è ampiamente pubblicizzata. La sentenza – priva di motivazioni – è stampata e affissa in pubblico.
La scarsa o nessuna conoscenza dell’indagine e del processo contribuisce a generare nel pubblico la certezza della colpevolezza del condannato, in mancanza di quel processo mediatico, così diffuso e capillare ai nostri giorni, che permette all’opinione pubblica di crearsi un’idea “propria” anche in contrasto con la sentenza giudiziaria.
È una epoca in cui, di fatto, sono tutti colpevolisti. Oppure, vista da una differente prospettiva, è l’epoca in cui, per forza di cose, potremmo dire per “atto di fede”, si deve ritenere che la Giustizia non sbagli mai.
Pena di morte in epoca napoleonica – Sempre secondo Viriglio, nel periodo francese, con Decreto del 1800, si proscrive la corda e il piombo, concedendo l’esclusività alla ghigliottina, ironicamente descritta come “macchina umanitaria”, posta in piazza Carlina, ribattezzata Place de la Liberté. Dal 1800 al 1814 sono ghigliottinati 423 persone, di cui 111 nel solo anno 1803. Il primo governo provvisorio repubblicano ha stabilito la pena di morte per chi critica il nuovo Governo, loda quello antico o atterra un albero della libertà.
Di questo periodo, Viriglio ci tramanda il macabro aneddoto della Bela Caplera, adultera assassina del marito, protagonista di un episodio di vita residua della testa ghigliottinata, narrato anche per Carlotta Corday.
Sottolineare la sudditanza psicologica del Piemonte verso il personaggio e il relativo periodo storico.
Pena di morte alla Restaurazione (1814 – 1831) – In Piemonte troviamo aspetti di ancien régime non soltanto nel Settecento ma anche dopo la Restaurazione del 1814, durante il regno di Vittorio Emanuele I e di Carlo Felice, con il ritorno alla legislazione penale pre-napoleonica del Regno Sardo.
Questi aspetti di ancien régime si apprezzano sia nella pubblicità della pena (sia pure non clamorosa come in altre nazioni) e, soprattutto, nelle modalità di svolgimento dei processi penali. Per un confronto con altre nazioni europee, in Francia, le udienze dei processi sono aperte al pubblico e a Parigi, nel 1825, nasce la «Gazette des Tribunaux», un giornale che riporta i dibattimenti delle aule giudiziarie e che sarà anche fonte di ispirazione per molti autori di feuilleton.
Nel maggio 1814, Vittorio Emanuele I ritorna in possesso di tutti i territori del suo Regno e, rientrato a Torino dopo la sconfitta di Napoleone, concede un Generale Indulto, che spalanca le porte delle carceri ad una grande quantità di ribaldi. Abolisce la legislazione francese e reintroduce la precedente legislazione del Regno Sardo, basata sulle Regie Costituzioni del 1770, quindi, con il ripristino delle Costituzioni settecentesche, è reintrodotto l’approccio di ancien régime, con qualche piccola innovazione: l’abolizione della tortura come mezzo di indagine.
Il Regio Editto 10 giugno 1814 abolisce l’infamia per i parenti dei colpevoli e la tortura, sostituita da un atto di interrogatorio dei condannati, da eseguire dopo la sentenza di condanna, quando la loro sorte è ormai inesorabilmente stabilita, nella speranza di poter ottenere una confessione, quasi come in punto di morte, al riguardo dei complici e su eventuali fatti non emersi al processo.
Restano però in vigore, per i crimini considerati più gravi, le «esemplarità» prima e dopo l’esecuzione capitale: incrudelimenti sul corpo del condannato a morte prima dell’esecuzione, come l’applicazione delle tenaglie roventi e il taglio della mano destra, e accanimenti anche sul cadavere del giustiziato, che può essere sottoposto al taglio della testa, del braccio destro da appendere al patibolo, oppure allo squartamento per esporne i quarti in punti appositi della città, oppure alla cremazione pubblica con spargimento delle ceneri al vento. Nel caso di reati molto gravi, la pena di morte non era inflitta mediante impiccagione ma col supplizio della ruota.
Esempi si possono trarre dal mio libro “Cronache criminali del vecchio Piemonte”, dove ho cercato di far seguire al lettore l’evoluzione della giustizia penale del Real Senato di Piemonte dal 1814 al
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1848.
Sentenze del Real Senato di Piemonte dal 1814 al 1831 contengono ancora disposizioni verso il cadavere del giustiziato, come la testa staccata dal busto e affissa al patibolo, il supplizio della ruota, la divisione del cadavere in quarti da affiggersi nei modi e luoghi soliti.
Le idee del re Carlo Alberto sulla pena di morte – Carlo Alberto, dopo Emanuele Filiberto e Vittorio Amedeo II, è il terzo grande rinnovatore del diritto piemontese. Il suo regno dura dal 1831 al 1849 e il nuovo re “illuminato”, salito al trono il 27 aprile 1831, con Regie Patenti del 19 maggio 1831, cancella delle Regie Costituzioni del 1770, ancora in vigore, il supplizio della ruota, la pena di morte per furti semplici e furti domestici, l’accanimento sul cadavere con abbruciamento del cadavere del giustiziato, l’esemplarità delle tenaglie infuocate, la confisca generale dei beni. Restano ancora in vigore le Regie Costituzioni in attesa di un nuovo Codice Penale.
L’effetto di queste nuove disposizioni è apprezzabile nel Canavese: con sentenza del 13 marzo 1835 è condannato a morte senza disposizioni circa il suo cadavere quel Giorgio Orsolano, imputato di tre barbari e proditorii omicidii e stupro violento delle vittime, tre ragazzine, che passerà alla storia come la Jena di San Giorgio.
Il Codice penale albertino (1839) – Il re intende dare al regno una nuova legislazione più adeguata ai tempi, ma è fermamente deciso a rispettare il più possibile le istituzioni preesistenti e ad impedire eventuali limitazioni al carattere assolutistico dello stato: vuole procedere doucement, con una lentezza talora esasperante, lungo la via di un cauto riformismo all’insegna del tout améliorer et tout conserver. Il 7 giugno 1831, il primo segretario di stato per gli affari interni comunica al guardasigilli, conte Giuseppe Barbaroux (Cuneo 1772-Torino 1843), l’intenzione di Carlo Alberto di redigere cinque nuovi codici. Barbaroux diviene così presidente di una Regia Commissione, che lui suddivide in quattro classi, e sono promulgati il nuovo Codice Civile (1837), quello Penale (1839), quello Militare (1840), quello di Commercio (1842). Questa serie di nuovi codici porta il regno in linea coi tempi e con la legislazione degli stati più evoluti, ma il lavoro immane stroncherà la vita di Barbaroux, morto suicida a Torino il 14 marzo 1843.1
Per il nuovo Codice Penale, Carlo Alberto insiste sul concetto di pena come rieducazione, quindi ne sostiene la limitazione, non l’abolizione, della pena di morte che vuole il più possibile limitata a coloro che hanno ucciso.
La pena di morte nel Codice Penale del 1839 – Il 26 ottobre 1839 avviene la promulgazione del Codice Penale, che entra in vigore il 15 gennaio 1840.
Sono puniti con la morte:
i reati contro la sicurezza esterna dello Stato (spingere nazioni straniere a fare guerra contro lo stato oppure aiutarle in caso di guerra);
i reati contro la sicurezza interna dello Stato, attentato e cospirazione contro il re (crimine che è pari al parricidio!) o contro i componenti della famiglia regnante; attentato e cospirazione con lo scopo di cambiare la forma di governo oppure di istigare il popolo all’insurrezione armata contro l’autorità sovrana; la sommossa;
alcuni reati contro il rispetto alla religione di Stato: omicidio di un sacerdote nell’esercizio delle sue funzioni (art. 159), atti di oltraggio e disprezzo delle Ostie consacrate (art. 161); furto di vasi sacri contenenti ostie consacrate (art. 660);
la falsificazione di monete, ma soltanto se commessa da un impiegato delle Regie Zecche, per aggravamento della pena dei lavori forzati a vita (art. 337);
il falso testimone, il falso perito, il calunniatore cui è inflitta la identica pena del condannato, anche se quella della morte;
lo stupro violento commesso su di una monaca (art. 534), poteva essere punito con la morte, per meglio tutelare la loro speciale condizione;
1 Altre fonti indicano l’11 maggio 1843 come data di morte di Barbaroux.
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l’omicidio volontario, il parricidio, l’avvelenamento, anche solo tentati, l’infanticidio e l’assassinio (omicidio commesso a tradimento, fingendosi amico della vittima, con premeditazione o con agguato). Nei casi di parricidio, veneficio ed infanticidio, con circostanze attenuanti, era però possibile diminuire la pena di uno o due gradi.
I condannati per parricidio dovevano essere condotti al patibolo «in camicia, a piedi nudi e col capo coperto di un velo nero» come prescritto dall’articolo 577 del Codice Penale.
Il cadavere del suicida non è soggetto a disposizioni, ma il suicida è sottoposto a una infamia civile, le disposizioni del suo testamento sono considerate nulle e sono vietati gli onori pubblici.
Se entro i quaranta giorni successivi a ferite, a percosse o ad altre offese contro la persona, avviene la morte della parte lesa, si applicano le pene previste per l’omicidio (anche la morte);
per la grassazione, ovvero la depredazione accompagnata da violenza, si doveva condannare a morte quando vi era omicidio, tentato omicidio, omicidio fallito, ferite, percosse, maltrattamenti tali da costituire di per sé un crimine (perché dimostravano la malvagia intenzione del colpevole di attentare alla vita della vittima). Negli altri casi la pena era rappresentata dai lavori forzati a vita, oppure a tempo, in relazione alla gravità del reato. Il senso di tutela della proprietà privata rimane molto accentuato.
Pena di morte per il sequestro di persona a scopo di estorsione anche se solo tentato;
Pena di morte per incendio, esplosione di mine, sommersione di bastimenti e inondazioni;
è prevista la pena capitale per un reato punibile per se stesso con i lavori forzati a vita se
commesso da persona già in stato di espiazione di questa pena per precedente condanna (art. 124).
Critiche (in parte ingiuste): Il Codice Penale del 1839 prevede la pena di morte in quarantanove articoli che si può estendere a 150 casi. Ricordiamo l’ironico commento di Filippo Ambrosoli (Milano, 1823-Napoli, 1872) studioso di diritto penale e magistrato: «il codice sardo [del 1839], come è ben noto, non aveva fatta parsimonia della pena di morte».
Carlo Alberto ha ordinato – contro il parere della Commissione – di abolire la morte per i falsi monetari, ma vuole la condanna a morte di chi dà fuoco a case abitate; pretende infine le pene più severe per gli autori di sacrilegi e per i suicidi, che considera come affetti di una forma di pazzia e di irreligiosità degne di punizione.
In questa visione, si ritiene che l’omicidio sia uno dei più gravi reati, debba sempre essere punito severamente, ma con distinzione tra omicidio qualificato e non qualificato.
Omicidio è qualificato, cioè aggravato, quando vi sono rapporti di parentela tra ucciso e uccisore (parricidio, infanticidio), quando non vi è motivo per uccidere, quando si usano mezzi crudeli (avvelenamento), quando l’omicidio è commesso per mandato, oppure in conseguenza di ribellione alla giustizia: per questi delitti la pena deve essere la morte.
Quando si tratta di parricidio, oppure di attentato o di cospirazione contro il re (crimine che è equivalente al parricidio!) la pena di morte deve poi essere inflitta con una speciale esemplarità, ma senza quelle pene eccessive, che Carlo Alberto ha abolito, «con lo scopo salutare di rendere più profondo nel pubblico l’orrore di misfatti, che importa sommamente di far detestare».
Per gli omicidi non qualificati cioè non aggravati, la pena era quella dei lavori forzati a vita.
Spesso il nuovo Codice non prevedrà la pena capitale in modo assoluto, ma si darà facoltà al giudice di comminarla.
Quando il nuovo Codice penale non è ancora in vigore: l’11 settembre 1839 sono condannati a morte il notaio Raimondo PANIERI, mandante dell’efferato assassinio di un cugino a scopo di vendetta e il suo sicario, Giovanni RIVA CAMBRIN, poi impiccati a Pont Canavese il 17 settembre 1839: sarebbero i primi condannati a morte assistiti da don Giuseppe Cafasso e quindi i primi Santi Impiccati. (Si contendono questo primato con Domenico Becchio, il Dragone di Caramagna, condannato a morte con sentenza del 16 gennaio 1838, grassatore che però non aveva commesso nessun omicidio).
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Aspetti particolari della pena di morte per reati “religiosi” – Pier Carlo Boggio si scaglia contro questi articoli che comminano la pena di morte per reati a sfondo religioso (a proposito del furto sacrilego di una pisside con ostie consacrate, avvenuto il 18 luglio 1845 nella chiesa annessa al convento dei Cappuccini a Chivasso).
Dalle statistiche penali emerge che la pena di morte, nel periodo in cui vigeva questo Codice Penale, era stata inflitta per omicidio premeditato e per grassazione e non per gli altri reati “religiosi” prima elencati.
La condanna alla pena di morte comporta la perdita dei diritti civili; la sentenza di condanna a morte deve essere stampata e affissa nella città dove ha sede il Magistrato giudicante, nel capoluogo del comune dove è stato compiuto il delitto, nel luogo di esecuzione, nel comune di abitazione del condannato. In ogni caso di condanna a morte, vi sono sempre l’indennizzazione verso gli eredi dell’ucciso e le spese. Le armi sono confiscate e gli oggetti rubati sono restituiti ai proprietari o ai loro eredi.
La condanna ai lavori forzati a tempo comporta l’interdizione dai pubblici uffici.
I condannati ai lavori forzati sono sottoposti alla pena della berlina: sono condotti in pieno giorno, per le pubbliche vie, con la catena ai piedi e con un cartello appeso al collo, sul quale è riportato in caratteri grandi e leggibili, il nome, il cognome, l’eventuale soprannome, la pena e il reato commesso. In una epoca che dispone di mezzi assai limitati per la comunicazione di massa e che incontra enormi difficoltà per far circolare le notizie, la berlina – analogamente alla stampa della sentenza – intende dare notorietà alle condanne, nella convinzione largamente condivisa, che agisca come deterrente. La berlina, ormai considerata un residuo del passato, sarà abolita nel 1854. Secondo l’articolo 14 del Codice Penale, le condanne a morte devono eseguirsi nel luogo a ciò destinato (per Torino il Rondò dla forca o Rondò di Valdocco fino al luglio del 1852), oppure nel luogo dove era stato commesso il crimine (es. Magliano Alpi, Romano Canavese, Bra, Bagnasco), dove per il pubblico esempio la Corte riteneva più opportuno.
Il 1° maggio 1848 entra in vigore il nuovo Codice di Procedura Criminale.
Il Senato di Piemonte (come pure quello di Chambery, Casale, Nizza, Genova, Sardegna) divengono Magistrato di Appello (dal 1855 Corte di Appello), i dibattimenti dei processi, per legge, diventano pubblici.
Soltanto con l’entrata in vigore nel 1848 del nuovo Codice di Procedura Criminale sono abolite le norme che in passato hanno reso – per legge! – la propalazione vantaggiosa.
I propalatori continueranno a esistere, per processi grandi e piccoli, e caratterizzeranno tutti i grandi processi contro le associazioni di malfattori che si svolgeranno a Torino fino alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento.
Alcune norme del nuovo Codice di Procedura Criminale riguardano l’esecuzione delle condanne a morte, ad integrazione del citato articolo 14 del Codice Penale.
Se una donna incinta è condannata a morte, la pena è sospesa fin dopo il parto.
La pena capitale e la berlina non possono aver luogo nei giorni festivi.
Alla esecuzione capitale deve assistere il segretario del Magistrato che aveva pronunciato la condanna, redigere un verbale da trascrivere, entro 24 ore, a margine dell’originale della sentenza (disposizione in rari casi disattesa!).
Nel c.d. decennio di preparazione (1849-1859) il numero delle sentenze di morte, eseguite, cassate e rinviate ad altro Magistrato e comminate in contumacia sale in modo esponenziale rispetto al precedente periodo albertino. Le condanne a morte sono inflitte soprattutto per grassazione con omicidio, per parricidio, per matricidio, per uccisione rispettivamente di mogli, di mariti e di altri parenti, figli compresi, per resistenza alla forza pubblica con omicidio o tentato omicidio.
La pena di morte nel Codice Penale del 1859 – Il Regno d’Italia viene proclamato il 17 marzo 1861. A questo appuntamento la nazione giunge con un nuovo Codice Penale del 1859, che
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rappresenta il secondo Codice Penale del Regno di Sardegna ma che diviene il primo Codice Penale italiano, anche se si lascia sopravvivere per qualche decennio il Codice della Toscana del 1853, che NON prevede la pena di morte.
Il Codice del 1859 è in profonda continuità con quello del 1839, la struttura è identica, le pene spesso uguali, sono abolite la berlina e l’emenda, già abrogate nel 1854. È fortemente laico, tendenzialmente molto più borghese di altri, assai più recenti; le disposizioni sul furto non subiscono modificazioni di rilievo.
La pena di morte è mantenuta in tredici ipotesi:
attentato alla sacra persona del Re (art. 153);
attentato contro persone Reali (art. 154);
corruzione del giudice onde derivi una condanna capitale che sia eseguita (art. 222);
falsa testimonianza che abbia per conseguenza una condanna capitale eseguita (art. 366);
parricidio (art. 531);
veneficio (art. 531);
infanticidio (art. 531);
assassinio (art. 531);
omicidio per mandato (art. 533);
omicidio sine causa, ovvero bestiale (art. 533);
omicidio per cagione di altro maleficio (art. 533);
grassazione nel caso di furto accompagnato da omicidio;
crimen incendii, incendio o distruzione che provoca morte di qualche persona, tranne che
questa conseguenza non abbia potuto essere prevista dal delinquente (art. 660).
Sono istituite, dal 1860, le Corti di Assise, dove il giudizio di colpevolezza o di innocenza è dato da dodici giurati, scelti fra gli elettori, e non più da giudici togati, come è avvenuto nelle Corti d’Appello.
Nell’agosto 1860, un cronista giudiziario torinese tira le prime somme: i giurati hanno sempre concesso le circostanze attenuanti a favore dell’imputato tutte le volte che il reato non ha provocato danno, oppure se questo è stato riparato, e tutte le volte che il reo ha confessato. La seconda regola invita i colpevoli a collaborare con la giustizia e si vedrà di rado l’orrendo spettacolo del patibolo. Anche se la pena di morte è stata conservata nel Codice del 1859, pare che il governo abbia intenzione di abolirla. Queste le impressioni del cronista giudiziario fin dal 1860.
Nel regno d’Italia (1861) – Con il Regno d’Italia emerge il problema dell’unificazione dei codici penali dei vari stati preunitari. Il Codice della Toscana del 1853 NON prevede la pena di morte. Il pensiero abolizionista è ormai diffuso in una vasta parte della classe politica, è sempre più diffuso fra gli intellettuali, e questo determina un lungo dibattito: alcuni cercano di estendere l’abolizionismo toscano al resto d’Italia, altri cercano di estendere il Codice Sardo.
I deputati della Toscana, assai refrattari alla “piemontizzazione”, osteggiano l’unificazione legislativa che proprio a causa del dibattito sulla pena di morte è procrastinata per parecchi anni. Nel 1865, la Camera dei Deputati presenta al Senato, conservatore, un progetto di legge che, in sostanza, limita la pena capitale ai crimini di gravità eccezionale ed a qualche reato politico.
Il Senato non teme l’impopolarità e si oppone a questo progetto.
Sono di questo periodo le due edizioni del libro dell’avvocato genovese Giacomo Borgonovo “Il patibolo, il carnefice ed il paziente” dedicati al boia di Torino, Pietro Pantoni.
L’unificazione del Codice penale è quindi ulteriormente rimandata.
Il dibattito sulla pena di morte travalica quello parlamentare e in tutta Italia si tengono adunanze per chiedere l’abolizione della pena di morte, alle quali partecipavano le élite culturali dell’epoca. Numerose riviste e giornali sono pubblicati per sostenere la campagna abolizionista. Fra questi ricordiamo gli atti della “Società per l’abolizione della pena di morte” di Milano, la “Biblioteca abolizionista” di Lucca, il “Cesare Beccaria” e il “Giornale per l’abolizione della pena di morte” di Pietro Ellero Edito a Milano nel 1861 a Bologna nel 1862 e di nuovo a Milano nel 1864.
La rivista specialistica Giornale per l’abolizione della pena di morte è diretto dal criminalista Pietro
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Ellero (Pordenone, 1833 – 1933), filosofo del diritto a Milano, docente di diritto penale a Bologna fino al 1889, fra gli ideatori e fondatori della scuola positiva penale italiana. Perseguitato dall’Austria per le sue idee sulla pena di morte. Creatore dell’Archivio giuridico (1868), deputato (1866), senatore (1889). Scrisse Della pena capitale (Venezia 1858), Trattati criminali (Bologna 1875) e di questioni economiche e sociali.
Qualche numero sulle esecuzioni capitali.
Scrive l’abate Luigi Nicolis di Robilant nella sua biografia di San Giuseppe Cafasso (1912), che la forca non sopravvive di molto al sacerdote, morto il 23 giugno 1860: quattro sole esecuzioni hanno ancora luogo per Gaudenzio OTTOBRINO e Antonio BELLONE, entrambi da Borgomanero (10 aprile 1861); Luigi GERVASIO da Pieve di Cairo (14 gennaio 1862); e Carlo SAVIO da Incisa Belbo (13 aprile 1864). Carlo FERRETTI da Bedigliora (Svizzera) viene impiccato a Torino l’8 maggio 1861 e, per motivi a noi ignoti, non è registrato nel Liber mortuorum (Libro dei morti) della Arciconfraternita della Misericordia di Torino.
Carlo SAVIO da Incisa Belbo (13 aprile 1864) è considerato l’ultimo impiccato di Torino, anche se, dopo questa data, ci saranno dei militari fucilati.
La forca di Torino finisce nel museo di antropologia criminale del professor Cesare Lombroso, quando viene casualmente ritrovata in un sotterraneo del palazzo della Curia Maxima di via Corte d’Appello. Una delle due scale, probabilmente quella più lunga, un tempo utilizzata dall’esecutore di giustizia, era stata adoperata, per molti anni, per la pulizia dei lampioni dell’atrio del Palazzo di giustizia.
Per il resto d’Italia, secondo Valentina Piattelli, Per quanto riguarda l’applicazione della pena di morte nel nuovo stato unitario, le fonti sono disomogenee e i dati confusi, soprattutto perché le condanne dei tribunali militari non venivano sempre registrate.
In ogni caso si può affermare che vi fu una generale diminuzione delle condanne e delle esecuzioni. Infatti fra il 1815 e il 1855 nei vari stati preunitari le condanne furono 655 e le esecuzioni 469 (poco più di 10 all’anno).
Nel periodo fra il 1867 e il 1876 – il primo per cui si hanno fonti affidabili (Studio statistico del Ministero di grazia e Giustizia fatto pubblicare dall’on. Mancini) – le esecuzioni portate a termine furono 27 (circa 3 all’anno). Questa riduzione è dovuta da un lato al nuovo Codice sardo, che aveva diminuito il raggio d’applicazione della pena di morte, dall’altro dall’entrata in vigore delle giurie popolari.
È invalso l’uso che il Re conceda la grazia a coloro che la magistratura condanna a morte, come previsto dal Codice, commutando la pena capitale nei lavori forzati a vita. Varie sentenze del genere a Torino tra il 1869 e il 1870.
Per i militari, la pena di morte continua ad essere applicata anche dopo il 1864, talvolta con qualche stridente contrasto: la fucilazione a Milano del caporale Pietro Barsanti (27 agosto 1870), coinvolto in un tentativo di insurrezione mazziniana, è criticata perché nello stesso tempo viene graziato uno spietato assassino (Dominique Rossignol).
Nel 1871, il 23 gennaio, ad Alessandria esecuzione di Alessandro Vertua.
Il Codice Zanardelli del 1889 e l’abolizione della pena di morte – Soltanto nell’anno 1889 il nuovo codice penale, detto codice Zanardelli dal nome del Ministro Guardasigilli Giuseppe Zanardelli che lo ha preparato, abolisce la pena di morte, tranne che per i reati militari.
Dopo l’assassinio di re Umberto I a Monza nel 1900 per opera dell’anarchico italiano Gaetano Bresci, vi è una campagna di stampa per il ripristino della massima pena.
La pena di morte rimane però in vigore nel Codice Penale di Guerra ed è nuovamente applicata in modo massiccio durante la Grande Guerra per reati che andavano dalla diserzione al “disfattismo”.
Reintroduzione della pena di morte in Italia – Il Codice Rocco e la pena di morte per i reati comuni (1930 – 1943) – La pena di morte viene reintrodotta in Italia nel 1926 con la Legge 2008, apparsa sulla Gazzetta Ufficiale del 6 dicembre 1926, e che trova la sua giustificazione soprattutto nei quattro attentati subiti da Benito MUSSOLINI fra l’autunno 1925 e l’autunno 1926: si prevede la
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pena di morte per gli autori di attentati contro il sovrano, i principi e il capo del governo, per i traditori della patria, per i responsabili dei tentativi di insurrezione e di guerra civile. È comminata da un Tribunale speciale per la difesa dello stato, i cui componenti sono direttamente nominati da MUSSOLINI; le sentenze, inappellabili, devono essere eseguite entro 24 ore. I cittadini italiani sono fucilati (31 le sentenze eseguite) e i sudditi delle colonie, impiccati. Il Tribunale speciale per la difesa dello stato funziona fino al 25 luglio 1943. Viene ristabilito dalla Repubblica di Salò, fino al 25 aprile 1945. Nel gennaio 1944 sono così fucilati i “traditori del 25 luglio”, tra cui il genero di Mussolini, Galeazzo CIANO.
Il nuovo Codice Penale elaborato dal ministro di grazia e giustizia Alfredo ROCCO (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 28 ottobre 1930) prevede la pena di morte anche per reati comuni, per i delitti che comportano la morte di più persone, oppure per omicidi aggravati: parricidio, crudeltà, al fine di eseguire oppure di occultare altro reato, violenza carnale. Anche in questi casi l’esecuzione avviene mediante fucilazione. Restano naturalmente in vigore le pene capitali già previste (attentati contro il sovrano, i principi e il capo del governo), con l’aggiunta della condanna a morte per chi avesse attentato al Pontefice.
Le fucilazioni devono avvenire entro un carcere o in altro luogo indicato dal guardasigilli, NON sono pubbliche e vengono eseguite dalle forze armate o da agenti di polizia.
Sarebbero 98 le sentenze eseguite, cui vanno aggiunte quelle del Tribunale speciale. Queste esecuzioni di criminali comuni sono strate considerate da Giovanni Tessitore nel suo libro «Fascismo e pena di morte. Consenso e informazione» (Milano, 2000).
Fra questi condannati, alcuni erano di area piemontese e qui sono narrate le loro vicende.
Condanne a morte in Piemonte, per reati comuni, alcune eseguite (ridottissime informazioni giornalistiche).
Nel marzo 1844, in piena guerra civile, il governo del Sud abolisce la pena di morte: la disposizione ha significato simbolico, anche se dal 25 aprile 1945 è estesa a tutta l’Italia.
Nel 1945 si contano 12.261 omicidi comuni e da questa situazione di assoluta emergenza nasce il Decreto Luogotenenziale di Umberto II di Savoia del 10 maggio 1945 n. 234, che riammette la pena di morte, in particolari circostanze criminose: in applicazione di questa norma sono fucilati a Torino gli autori della strage di Villarbasse, Giovanni PULEO, Francesco LA BARBERA e Giovanni D’IGNOTI, il 4 marzo 1947.
Dopo qualche mese, l’articolo 27 della Costituzione abolisce la pena di morte.
In conclusione, l’abolizione della pena di morte è un traguardo irrinunciabile, ma che deve immediatamente porre ai cittadini e allo Stato il problema della tutela delle vittime e di una adeguata espiazione da parte del colpevole.
In certi casi, di fronte all’enormità del crimine (ad es. uccisione di bambini) si possono anche capire – senza condividerle! – le richieste di ricorso alla pena di morte. In ogni caso, bisognerebbe evitare certi atteggiamenti abolizionisti intransigenti che ricordano le idee del “filantropo” Mr Honeythunder, descritto da Charles Dickens nel suo romanzo Il mistero di Edwin Drood (1870). Mr Honeythunder affermava infatti che: “Bisognava abolire la pena di morte, ma prima andavano spazzati via dalla faccia della terra legislatori, giuristi e giudici di opinione contraria”.
Vorrei ricordare degli aspetti della giustizia italiana che in alcuni casi riesce difficile considerare “evolutivi” e che appaiono piuttosto come “degenerativi”: in passato, si impiegavano la tortura e la
pena di morte, abolite grazie anche all’opera di Cesare Beccaria.
Oggi però assistiamo alla libertà di tornare a uccidere come nel caso di Maurizio Minghella e di Angelo Izzo, il mostro del Circeo (due serial killer, personificazione moderna di Giorgio Orsolano).
Non credo che questa fosse l’idea di Cesare Beccaria!
La celebre antiporta del suo libro, incisa da Lapi per l’edizione del 1765,
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basata su uno schizzo dello stesso Beccaria ci mostra la Giustizia personificata che respinge con sdegno il boia che regge tre teste recise e guarda la sua bilancia con un piatto appoggiato a vari strumenti di lavoro, zappe, badili, martelli intrecciati a catene: idea del lavoro forzato che sostituisce la pena di morte. Strumenti di lavoro intrecciati a catene non mazzi di carte, mazze da golf e bottiglie di champagne! (e la possibilità di ripetere i reati).
Sottolineo queste “degenerazioni” con la citazione molto polemica del sito “Lisistrata” di Adriana Bolchini: “In Italia la pena di morte esiste: per le vittime innocenti e ad attuarla sono i pluriassassini con la tacita partecipazione dello Stato”.
Un secondo aspetto è quello del clamore mediatico, non sempre giustificato, che circonda i colpevoli di reati clamorosi e dimentica le loro vittime e l’impegno delle forze dell’ordine per catturarli. Cito una frase di Michele Rinelli, poliziotto pubblicista: “Ma dove andrà a finire una società che celebra i delinquenti e seppellisce gli eroi quotidiani?”. Esemplificativo è
il caso di Renato Vallanzasca (paragonabile ad un grassatore omicida dell’Ottocento) condannato a quattro ergastoli e 260 anni complessivi di reclusione.
Gabriella Vitali D’Andrea, vedova del Maresciallo dello Polizia di Stato, Luigi D’Andrea, ucciso a 31 anni da Vallanzasca il 6 febbraio 1977 al casello autostradale di Dalmine (BG), insieme al collega Renato Barborini, è autrice del libro “Nessuno dimentichi”, pubblicato nel 2003.
La signora dice: “È un criminale che deve scontare fino in fondo la sua pena. Di fronte a certi episodi tragici, a certe vicende che hanno segnato nel profondo i destini di tante persone. lo Stato non può fare sconti, altrimenti trasmette un messaggio sbagliato alle nuove generazioni, oltre che mancare di rispetto ai familiari delle vittime. Noi il nostro “ergastolo” ce lo portiamo sulle spalle dal giorno in cui Vallanzasca ci strappò i nostri cari. Lui sconti i suoi. Non chiediamo né vendette né accanimenti. Ma non possiamo accettare che, con ritmo assurdamente regolare, questo individui torni sotto i riflettori”.
“Renato Vallanzasca sconti la sua condanna nell’oblio totale” nel 2010 in occasione del film di Michele Placido “Gli angeli del male”, ispirato al libro autobiografico Il fiore del male. Bandito a Milano scritto da Vallanzasca stesso con l’aiuto del giornalista Carlo Bonini (varie edizioni, Milano, 1999-2011).
Renato Vallanzasca Leonardo Coen, L’ultima fuga, Milano, 2010.
Voglio dire due parole non agiografiche su Cesare Beccaria. In passato, alcuni lo accusavano di aver scritto il suo opuscolo cavalcando un’idea di moda, che lui non condivideva profondamente ma che gli era servita per diventare famoso, cogliendo l’occasione favorevole per legare il suo nome a idee innovative. Si raccontava che, derubato di un orologio da un suo domestico, volesse che il ladro fosse condannato a morte o almeno sottoposto a tortura. Ugo Foscolo era fra i suoi accusatori.
“Abroghiamo la pena di morte, benissimo, ma comincino prima i signori assassini (Alphonse Karr, 1808-1890). “Aboliamo la pena di morte, ma che i signori assassini ce ne diano l’esempio”.
“Noi, gente mite e remissiva, neghiamo alla società il diritto di uccidere, lasciandolo integro però ai signori assassini” (Alberto Viriglio, 1898).