il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2024
Intervista a Enrico Gilardi
Quarant’anni fa, Roma divenne Caput Mundi del basket. Il Banco, come lo chiamava il popolo dei suoi tifosi, si aggiudicò a San Paolo, in Brasile, la Coppa Intercontinentale. In 522 giorni, il Banco Roma aveva vinto Scudetto (97-83 in gara 3 con Milano il 19.04.83), Coppa dei Campioni (79-73 a Ginevra contro il Barcellona il 29.03.84) ed era salita sul tetto del mondo. In quella squadra, guidata dal “Vate” Valerio Bianchini, c’era un campo base di romani: il capitano Fulvio Polesello, Stefano Sbarra, Roberto Castellano e lui, Enrico Gilardi, testaccino, classe 1957, “guardia” dal 1975 al 1991 di Lazio, Stella Azzurra, Virtus Roma, Brescia e Napoli. Con l’Italia, 160 presenze e 1.073 punti, l’argento ai Giochi di Mosca 1980 e l’oro agli Europei nel 1983. Oggi, dopo il fallimento del 2020, la Virtus Roma, erede di quel Magic Team, è iscritta al campionato di B.
Fa effetto celebrare il quarantennale del titolo mondiale con una squadra in terza serie.
Roma ha pagato tante cose, non solo errori di gestione. Nella storia del basket capitolino si leggono il declino di una città e il disinteresse delle autorità. Solo durante l’amministrazione del sindaco Veltroni si mosse qualcosa.
Un’immagine per dare un’idea della situazione?
È un problema chiedere due palloni per svolgere l’attività.
Il basket era un tempo il secondo sport di squadra in Italia, oggi è preceduto da altre discipline.
Si è puntato solo sul campionato, con l’idea di creare una specie di Nba. Ma qui non siamo negli Stati Uniti e si doveva partire dal basso: propagandare il basket nelle scuole e costruire campi di pallacanestro accessibili ai giovani. Giri per Roma e non vedi nulla.
La dinamica di quel biennio fantastico del Banco?
Ci furono tre fasi. La prima fu un viaggio in un mondo inesplorato. La seconda, con il trionfo in Eurolega, fu quella della determinazione. La terza fu figlia della consapevolezza di essere una realtà consolidata.
Chi c’era a festeggiarvi in Brasile?
Le famiglie e i dirigenti del Banco.
La partita chiave di quei due anni?
La semifinale di ritorno dei playoff a Cantù, dopo aver perso in casa gara 1. Senza quel successo, non avremmo raccontato questa storia. Il match più romanzesco fu quello di Ginevra. Chiudemmo il primo tempo sotto di 10 punti, ma nella ripresa demolimmo il Barcellona.
Larry Wright il fuoriclasse e Valerio Bianchini direttore d’orchestra: gli altri punti di forza?
In quella squadra c’erano quattro romani. Rappresentavamo Testaccio, Appio-Latino, Monteverde e Bufalotta. C’era un forte senso di appartenenza. Il passaggio dal Palazzetto al Palasport fu l’altro elemento decisivo: nella finalissima scudetto fu stabilito il primato italiano di spettatori.
La magia del Palasport.
Per noi era Wembley.
Di quella squadra restano solo i ricordi.
Incontro ancora persone che mi dicono ‘io quella sera c’ero’.
Il giorno dopo la conquista del titolo?
I vicini di casa organizzarono una festa. Per Testaccio furono settimane indimenticabili: prima il basket, poi lo Scudetto della Roma.
Bianchini va via nell’85, nell’88 termina l’abbinamento con il Banco Roma e nell’89 inizia l’avventura del gruppo Ferruzzi. Con Tangentopoli salta tutto e nel 2000 comincia il ventennio di Claudio Toti, fino al fallimento del 2020. La storia del basket romano come la storia italiana.
Ci sono state cose più grandi di noi. Toti cercò di ripercorrere la nostra strada, ma non riuscì a farcela.
Nel 2023 la Luiss Roma è stata promossa in B. La squadra è subito retrocessa, ma è il segnale che il basket non è morto.
I giovani romani hanno passione, ma per emergere devono giocare in altre città.
La sede della federazione di basket è a Roma: il disastro è sotto casa.
Sembra incredibile, ma è così.
C’è ancora un filo che unisce il Magic Team?
Abbiamo festeggiato in pizzeria, nell’aprile 2023, il quarantennale dello Scudetto. Abbiamo incontrato Larry Wright in Campidoglio. Ci sono i rapporti personali, le telefonate con Bianchini. Siamo qui, quarant’anni dopo.