Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  settembre 25 Mercoledì calendario

Biografia di Katia Ricciarelli

Da ragazzina che idea aveva dell’amore?
«Come tutte, mi prendevo delle cottarelle e ogni volta ero convinta che fosse il grande amore della vita. Il primo e l’ultimo. Che poi l’ultimo non è mai».
Nelle opere liriche la poveretta ci lascia (quasi) sempre le penne.
«Mai pensato di morire d’amore, figuriamoci. Più o meno nel melodramma va come diceva George Bernard Shaw: “Il tenore cerca di portarsi a letto il soprano e poi c’è il baritono che rompe le palle”», ride Katia Ricciarelli.
Vissi d’arte, vissi d’amore.
«Prima ho dato spazio alla carriera, mi ci sono dedicata anima e corpo, infatti mi sono sposata a 40 anni, quando ormai era consolidata. Una scommessa con me stessa, avevo giurato di diventare qualcuno, volevo rendere felice la mia mamma Molara, farla vivere come una regina».
Le comprò un castello.
«Non esageriamo, un borghetto di pietra, in Umbria, con una torre e più di 20 ettari di terreno, per una che non aveva mai avuto nemmeno mezzo metro di giardino».
Seria o volubile?
«Ho avuto tanti difetti, però come Carmen la sigaraia che, seppure libera, si innamora di un uomo alla volta, non ho mai avuto due amori nello stesso momento, nei sentimenti ci ho sempre creduto. Se non è reciproco cade tutto l’ambaradam».
Ha tradito?
«No, troppo faticoso. Rischi di dire bugie e farti scoprire, meglio evitare».
La passione con Carreras.
«Avevamo l’entusiasmo dei 23 anni, due artisti, due attori, imbevuti di storie d’amore, sopra le righe. Io un’eroina, José un latin lover. Non avevamo casa, sempre in giro, una coppia stupenda, sono stati 13 anni molto importanti».
Lui aveva già moglie.
«Eh lo so, si è molto arrabbiata».
Al posto suo come l’avrebbe presa?
«Sarei stata possessiva anch’io, specie con uno come Josè, corteggiatissimo, come quasi tutti i tenori».
Lo teneva d’occhio?
«Gli frugavo nelle tasche per scoprire se c’erano dei bigliettini. Lo spiavo».
Improvvisate?
«Non gli ho mai fatto una visita a sorpresa, temevo di restare delusa».
La corteggiò pure Sordi.
«Albertone buttava tutto in commedia, con quella sua risata. Mi chiamava “pacioccona mia”. Ero attratta dal mito, per me era il padreterno».
La leggenda delle cento rose che le mandò è vera?
«Come no, le mise in conto alla produzione. Ma non era tirchio, faceva tanta beneficenza. Ora che sono single lo capisco, nemmeno io mi metterei in casa un estraneo. Che poi a questa età finirei a fare la badante».
Meglio sola.
«La solitudine, se la vivi con intelligenza, è bella. Oggi ho il tempo di pensare, ricordare, guardare un tramonto sul lago, prima, sempre di corsa, non vedevo nulla».
Pippo Baudo (non si scappa). Cosa la colpì di lui?
«Mi piaceva il suo modo di essere ironico, divertente. Siamo stati davvero innamorati. Io fui un po’ cialtrona. Pochi giorni prima che sui giornali scoppiasse la bomba – la nostra storia era ancora segreta – gli dissi: “Sai Pippo, mamma non è abituata, se dovesse leggere qualcosa, che penserà?”. E lui: “Allora ci sposiamo”».
Mammà approvò?
«Le annunciai misteriosa: “Mi sposo”. “E con chi?”.”Con una persona importante”. “Giulio Andreotti?”. A Pippo voleva un gran bene. Una volta la portai in trasmissione, credo a Domenica In. Lo vide passare in camerino mentre si stava cambiando, con giacca e cravatta ma senza pantaloni. “Oh, finalmente grazie a mia figlia vedo un uomo in mutande!”».
Per le nozze Baudo rinunciò pure a Sanremo 1986 (lo racconta Loretta Goggi).
«Davvero? Non ricordavo».
Gelosissima.
«Certo, era sempre circondato da donne bellissime».
Di una in particolare?
«Mmm... C’era quella svedese...bionda, coi capelli corti, altissima... che poi sposò Sylvester Stallone».
Brigitte Nielsen, danese.
«Lei. La classica bonazza affascinante, pericolosa».
E di Lorella Cuccarini?
«No, era solo una brava ragazza scoperta da Pippo».
E lui era geloso?
«No, o almeno non lo dava a vedere. Mi mandavo da sola delle rose gialle, senza biglietto, per farlo insospettire. “Di chi saranno mai?”, gli domandavo ingenua. Ma lui niente, non reagiva».
Perché è finita?
«Tra due persone che hanno una carriera importante e così diversa ci sono delle problematiche... manca il dialogo, ci si vede poco e ci si allontana inevitabilmente».
C’entra quel figlio che non avete mai avuto?
«No. anzi, col senno di poi, meglio che non sia venuto. Doveva andare così».
E ora?
«Non ci sentiamo mai, ma gli auguro tanto bene. Se sapessi che ha bisogno di me, ci sono. Diciotto anni passati insieme sono molti, non è un amore che può finire nel dimenticatoio».
Quando si è sentita davvero una star?
«Non c’è un momento particolare. Ho cantato con tutti i più celebri direttori d’orchestra, ottenuto riconoscimenti ovunque, sono pure Grand’Ufficiale della Repubblica, ma ancora adesso sto bene nel tanto e nel poco, se mi porti in trattoria non faccio storie. Ho conosciuto re e principi, ma quello che conta è il mio pubblico a cui voglio un bene dell’anima».
Invidiata.
«Sì, ma la competizione fa parte del nostro lavoro. Anch’io sono stata invidiosa di Montserrat Caballé, che c’era prima di me. Dispetti? No, c’è posto per tutti».
Il suo amico Pavarotti.
«Siamo stati spesso in giro insieme, pure in America. Dopo lo spettacolo ci si ritrovava con altri cantanti nel suo appartamento, cucinava lui, mescolando le pietanze con le mani. Lo guardavamo esterrefatti, però era tutto buonissimo. Luciano era talmente simpatico, vivacissimo. Nonostante la mole giocava anche a tennis».
Le sfide a poker.
«Io, lui, Carreras e un altro tenore. Luciano era uno spasso. Se, mettiamo, aveva un full di Re e Donne, canticchiava: “Ho tre Kh-Kh-Kh e due Qu-Qu-Qu”. Vinceva sempre. Non ci stavo. “Luciano, va bene che hai un buon didietro, ma esageri!”».
Che gliene pare dei tre tenori de Il Volo?
«Per favore non me ne faccia parlare, una parodia».
E di Annalisa e Elodie, tanto per dirne due?
«Non le ascolto, non ho il tempo. E poi queste di oggi faccio fatica a distinguerle. Adoro Zucchero, Renato Zero, le voci scure che mi arrivano al cuore. Come Cocciante e Loredana Bertè, Iva Zanicchi, Gianna Nannini».
Disavventura in scena.
«Facevo Mimì ne La Bohéme. Quando Rodolfo, nell’impeto, si è buttato ai miei piedi, il letto, che aveva le ruote, è finito dietro le quinte, con me sopra. Ne Il Ballo in maschera con Carreras, ero in ginocchio, avrei dovuto alzarmi ma mi accorsi che stavo perdendo la sottoveste. Tra un acuto e l’altro gli sussurrai di aiutarmi, scivolai dietro il sipario, me la sfilai con un calcio e tornai fuori, fortuna che era molto buio. Bisogna essere pronti, far ridere è un attimo».
I fischi alla Scala li ha dimenticati, perdonati?
«Ingiusti. Fu una cattiveria di quattro deficienti. Mi sono arrabbiata, poi me ne sono fregata, capita, non si può piacere a tutti».
Sbagli?
«Se ne ho commessi, non volevo fare del male. Ho più sofferto che fatto soffrire».
Rimpianti?
«Non ne ho, mi sono tolta ogni soddisfazione, sarei un’ingrata, ho avuto tutto».
Qualcuno a cui dovrebbe chiedere scusa?
«Non c’è. Ho tanti difetti però non porto rancore. Finché si è al mondo bisogna cercare di essere felici, anche se nessuno sa cosa sia questa benedetta felicità. Che poi dura un niente. Quello che conta, mia cara, è la serenità».