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 2024  settembre 25 Mercoledì calendario

Elogio della lentezza

Il discorso che il presidente Sergio Mattarella ha dedicato ai ragazzi e alle ragazze lunedì, a Piacenza, è stato prima di tutto una grande riflessione sul senso, il valore, le dimensioni del tempo. «Quando non si ha rispetto per il tempo», ha detto, «si rischia di perdere momenti importanti della vita». Per poi aggiungere: «Pensate in proprio, vivete anche in lentezza, ma non nell’inerzia». Queste parole mettono a nudo un macroscopico tema della società contemporanea: l’equivoca sovrapposizione fra lentezza e inerzia, e il conseguente disprezzo della lentezza. Capire questa sostanziale differenza, invece, è fondamentale per capire l’anima del nostro tempo.
L’avvento e poi il trionfo della velocità sono stati forse i tratti distintivi più marcati del Novecento, come spiega lo storico Eric Hobsbawm nel suo classico Il secolo breve. Le rivoluzioni (sociali, tecnologiche, geografiche) sono diventate improvvisamente rapidissime, modificando completamente la fisionomia della società occidentale. Per studiare e definire l’influsso della velocità sul mondo contemporaneo è stata varata persino una scienza, la dromologia, il cui capofila è stato Paul Virilio, uno fra pensatori più originali della contemporaneità.
Italo Calvino, che proprio alla rapidità ha dedicato una delle sue Lezioni americane, ci ricorda che l’era della velocità nasce in realtà nell’Ottocento, e precisamente con il saggio The English Mail-Coach di Thomas De Quincey: la descrizione di un viaggio notturno sul box di un velocissimo mail-coach a fianco di un cocchiere addormentato. La perfezione tecnica del veicolo e la trasformazione del guidatore in un cieco oggetto inanimato mettono il viaggiatore in balia dell’inesorabile esattezza d’una macchina. Ne consegue terrore e, insieme, una nuova sconosciuta forma di abbandono. E ne consegue, soprattutto, una verità che nei decenni a venire diventerà inesorabile: nell’essere sempre più padroni delle tecnologie, siamo sempre meno padroni di noi stessi.
Anche Giacomo Leopardi, prosegue Calvino, ammirava la velocità. Nello Zibaldone scrive: «La rapidità e la concisione dello stile piace perché presenta all’anima una folla d’idee simultanee, così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini e sensazioni spirituali, ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte». La simultaneità è a sua volta una parossistica presenza della società di oggi, e deriva dall’avvento dei media elettronici di massa: l’esperienza di trovarsi contemporaneamente qui (dove fruisco dell’informazione) e altrove (dove quell’informazione nasce), ovvero l’abolizione perenne del tempo e dello spazio come per millenni sono stati concepiti.
È però con il Novecento, come si diceva, che il mito della velocità si afferma sul disvalore della lentezza. Si direbbe che molto non sia cambiato dal Manifesto del Futurismo di Tommaso Marinetti: «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente».
Oggi una persona lenta è una persona poco perspicace, indolente e ottusa. Eppure, dice ancora Mattarella, il mito della velocità nasconde in sé spinosi malintesi e illusioni. E cita l’affascinante saggio dello scienziato Lamberto Maffei, Elogio della lentezza: la mente umana nasce, unica fra tutte le specie animali, per essere lenta. Sono la lunga infanzia e la cura dei genitori che determinano lo sviluppo del cervello umano. La tecnologia ha reso più veloce le comunicazioni tra gli uomini, ma quelle tra i neuroni sono rimaste immutate. E il cervello è, essenzialmente, una macchina lenta. Per la sua filogenesi possiede anche meccanismi ancestrali rapidi di risposte all’ambiente, è vero, ma sono quelli meno evoluti: il cervello rapido non calcola le conseguenze dei suoi comportamenti, perché l’imperativo è sopravvivere. Ed è fallace e pericoloso: basandosi sull’illusione di controllo che dà la tecnologia, può innescare sogni di un dominio quasi soprannaturale sulla natura e sull’uomo stesso.
Eppure insistere sulla rivalutazione della lentezza oggi significa, nel pensiero dominante, invertire la freccia del progresso e delle aspirazioni. Ma si tratta di una stortura, e la letteratura novecentesca si è a lungo interrogata su questo tema.
Ne La lentezza Milan Kundera collega la lentezza al ricordare, e la velocità al dimenticare: «Nella matematica esistenziale il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio». È la lentezza la cifra che ci lega a noi stessi.
In Furore l’immenso, biblico cammino della famiglia Joad verso la California è, fra molte altre cose, un viaggio nella lentezza, un confronto tra il ritmo frenetico del cambiamento economico e tecnologico e la vita semplice e ciclica della natura. L’aggettivo “lentamente”, slowly, ricorre continuamente nel romanzo. E appare per ben tre volte in poche righe alla fine, in uno degli explicit più luminosi ed eterni della letteratura di tutti i tempi, quando Rose of Sharon allatta un pover’uomo sfinito dalla fame: «Avanzò lentamente verso l’angolo e si fermò davanti all’uomo, guardando il suo volto devastato, i suoi grandi occhi spauriti. Poi lentamente gli si sdraiò accanto. L’uomo scosse lentamente la testa. Rose of Sharon scostò un lembo della coltre e si denudò il seno. “Devi”, disse. Gli si strinse addosso e gli avvicinò la testa. “Così!” disse. “Così”. La sua mano scese sulla nuca dell’uomo e la sorresse. Le sue dita gli accarezzarono dolcemente i capelli. Poi alzò lo sguardo verso il fondo del fienile, e le sue labbra si unirono per un sorriso misterioso».
È questo che ci dice Steinbeck. Che la lentezza non migliora solo la qualità del nostro pensiero: Steinbeck ci dice che non possono esserci pietà, carità, coraggio senza lentezza. È nel tempo che dedichiamo all’altro che si esplicitano la cura e la solidarietà. È la lentezza, e non la velocità, che ci rende umani. —