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 2024  settembre 24 Martedì calendario

Intervista a Peter Greenway


Anche questa volta, come tutte le volte, Peter Greenaway ha indosso una giacca di gessato blu. È il suo marchio di stile, una sorta di talismano con cui affronta gli eventi della vita, interviste comprese. Il regista, pittore e scrittore gallese, 82 anni, è a Torino, dove oggi alle 18,30 il Museo del Cinema gli consegna il premio Stella della Mole. Nell’occasione si esibisce in una lettura di suoi brevi racconti, insieme alla moglie Saskia Boddeke e alla figlia Pip. E ieri ha presentato il volume illustrato che gli ha dedicato Stefano Bessoni, Greenaway (Bakemono Lab) e il libro 100 Drawings of the Mole (Silvana Editoriale), che raccoglie le cento variazioni grafiche con cui nel tempo ha rappresentato la Mole Antonelliana. «È una struttura straordinaria – si entusiasma – un edificio che affascina per la sua eccentricità, con quell’ingombro, la guglia e un tempietto classico a metà altezza. Ho sempre trovato interessante il fatto che fosse nata come sinagoga e solo negli ultimi tempi sia stata associata al cinema».
Condivide la scelta?
«Non è facile dire cosa debba essere un museo del cinema, i film sono movimento mentre un museo è qualcosa di statico. Può solo esporre oggetti che rimandano a quell’arte, non l’arte in sé. La sfida è rendere dinamici i pezzi in mostra, e in questo il direttore Domenico De Gaetano ha lavorato straordinariamente bene».
Ha da poco iniziato le riprese del suo nuovo film, Lucca Mortis, con i Premi Oscar Dustin Hoffman ed Helen Hunt. A 82 anni ha iniziato a flirtare con il mainstream?
«No, anzi. È la storia di un giornalista americano che torna a Lucca, città in cui è nato trovatello, alla ricerca delle proprie origini. Il protagonista ha 87 anni, il che non è esattamente comune nel cinema giovanilista di questo tempo. Il film parla di mortalità e immortalità, provando ad affrontare il grande punto interrogativo che ci attende laggiù, al fondo della strada».
La sua arte ruota tutta intorno ai concetti di sesso e morte, come mai?
«Per gli antichi greci eros e thanatos erano i due eventi più importanti, l’inizio e la fine della vita. Gli ultimi trent’anni li abbiamo passati a parlare inesauribilmente di sesso: la sua morfologia, l’inevitabilità, l’eccitazione, i pericoli. Ora credo sia arrivato il momento di affrontare anche l’altro tabù».
Quando Tim Roth venne a Torino, così la descrisse sul set di Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante: «Noi del cast lo chiamavamo “il prete”. Si aggirava alto e allampanato, tutto vestito di nero, con la sceneggiatura sotto il braccio come un messale. Era ossessivo, ogni cosa andava messa come e dove voleva lui». Si riconosce?
«Al 100%. Il fatto è che Roth era noto per la sua recitazione sopra le righe, direi selvaggia, e andava tenuto a bada. Era uno che se in una scena gli chiedevi di baciare un’attrice sulla guancia, la poveretta si ritrovava con la lingua di Tim in fondo alla gola».
È impegnato da anni nella compilazione di un’opera ciclopica, i 98 volumi di The Historian Books. A che punto è?
«Sono arrivato al quarto, Toys, che uscirà a breve in Francia per Dis Voir. È una sorta di storiografia di un Paese immaginario scritta da storici fittizi. Il primo volume era dedicato al sesso, il secondo al concepimento, il terzo alla nascita, il quarto ai giocattoli. Andrà avanti così, lungo tutto l’arco naturale dell’esistenza, fino al 97, la morte, e il 98, il fantasma».
La tassonomia è un altro elemento comune a molti suoi lavori. Da dove nasce questa necessità di classificazione?
«Amo le variazioni sullo stesso tema, come quelle dell’incisore olandese Goltzius quando ritrasse i mille modi in cui Icaro poteva essere caduto dal cielo. Anche la letteratura è piena di liste, da Rabelais a Calvino. Mi piace il concetto delle particelle minime: tutte insieme creano una continuità, ma possono essere prese singolarmente, recise dall’insieme come si fa con la salsiccia».
Tempo fa aveva detto che a 80 anni si sarebbe suicidato. Ha cambiato idea o è solo in ritardo?
«La chiami pure codardia. Suicidarsi suona molto doloroso ed è un dolore di cui non ho la forza di farmi carico. Però da sempre le creature senzienti hanno il desiderio di avere voce in capitolo sulla propria morte. Non per nulla le parole suicidio assistito ed eutanasia sono sulla bocca di tutti, anche in un Paese cattolico come l’Italia».
Qual è il suo prossimo obiettivo, dunque?
«Arrivare a 92 anni. È il mio numero preferito e in chimica rappresenta l’uranio, il più potente combustibile in grado di sprigionare energia». —