il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2024
Il memoir di Isaac Asimov
Anticipiamo stralci di “Io, Asimov”, il memoir dello scrittore (1920-1992) in libreria con Il Saggiatore.
Non prendo gli aerei a causa della mia acrofobia, e questa è una scusa legittima, come spiegherò a breve. Ciò nondimeno, ho volato su un aereo una volta mentre ero alla Naes (Naval Air Experimental Station, ndr) e una volta mentre ero sotto le armi. Alla Naes lavoravo sulla “fluoresceina sodica”, un marcatore colorante che i piloti ammarati nell’oceano potevano utilizzare per colorare l’acqua attorno a loro e rendersi più facilmente visibili agli aerei di ricerca… Allo scopo di assicurarmi che il mio test fosse adeguato dovevo paragonare i suoi risultati con quelli forniti dalla sorveglianza aerea. Se entrambi avessero dato gli stessi risultati, be’… Tale era il mio entusiasmo (e credo che fu l’ultima scintilla di autentico entusiasmo che provai per la ricerca scientifica concreta) che chiesi davvero di salire su un aereo per osservare i marcatori coloranti. Salii su un piccolo bimotore e, preso dall’interesse di osservare le minuscole macchie verdi sull’acqua, dimenticai la mia acrofobia e non andai nel panico… La mia seconda volta su un aereo fu durante il mio ritorno dalle Hawaii. Avevo chiesto il primo trasporto marittimo disponibile per San Francisco, che significava sei giorni nell’oceano. Preferivo quello a un volo aereo. Nell’esercito, tuttavia, “trasporto marittimo” significa per via aerea. Protestai energicamente, ma il mio sergente responsabile mi ordinò di salire sull’aereo, e non ebbi altra scelta se non imbarcarmi. Nessuno dei due viaggi mi ha convinto sugli aerei… E se prendessi un aereo moderno, con sedili comodi, con hostess che portano cibo, film da vedere, e così via? Cosa accadrebbe? Non lo saprò mai, poiché non esiste alcuna possibilità che mi convinca a cercare di provare un aereo…
Ma soffro davvero di acrofobia, o è solo una scusa per evitare gli aerei? Sono un codardo più che un acrofobo? Credetemi, sono un acrofobo. Me ne resi conto quando visitai l’Esposizione Mondiale a New York nel 1939 con la mia innamorata: mi venne in mente di salire sulle montagne russe. Da quello che avevo visto nei film, mi pareva che la mia ragazza avrebbe strillato avvinghiandosi a me, cosa che, pensavo, sarebbe stata fantastica. Nel momento in cui l’ottovolante raggiunse la prima e più elevata salita e cominciò a piombare in picchiata verso il basso, urlai per il terrore e mi aggrappai disperatamente alla mia innamorata, che sedeva lì impassibile e rilassata. Scesi dalle montagne russe mezzo morto.
Mi domando se sia effettivamente nato con la fobia, se faccia parte del mio corredo genetico. Dopo aver saputo che ero un acrofobo, ho evitato di proposito qualsiasi cosa potesse attivare la sensazione. Solo una volta fui convinto a violare questa giudiziosa precauzione. Nel dicembre del 1982, una grande menorah, alta poco più di nove metri, fu sistemata durante Hanukkah a Columbus Circle, a poca distanza dal mio appartamento. Un rabbino mi telefonò per chiedermi di accendere alcune lampade con una fiamma ossidrica, fare un breve discorso e ripetere una breve preghiera dopo di lui. Non avevo alcun desiderio di farlo, ma sono riluttante a comportarmi come se non avessi alcun sentimento ebraico. “Come ci arrivo fin lassù?”, domandai. “Con un’autogrù” disse lui. “Non posso farlo” dissi. “Sono acrofobo. Ho un terrore patologico delle altezze”. “Sciocchezze” disse lui. “Salirò anch’io su un’autogrù, e ricorda: più in alto vai, più sei vicino a Dio”. Quella era una sciocchezza, se mi permettete. Ma mi lasciai convincere… La sera in questione, una volta entrato nell’autogrù e percepito che mi stavo spostando verso l’alto, crollai sul fondo, e le mie dita strette, bianche per la pressione e abbarbicate al bordo dell’autogrù furono tutto ciò che la gente riuscì a vedere. Soffrivo di attacchi di angina pectoris all’epoca, e per la prima volta mi colpì quando non ero in movimento, serrandomi con forza il petto. Tutto ciò a cui fui in grado di pensare era la possibilità di un attacco di cuore fatale e mi dissi: “Se muoio adesso, Janet (la moglie, ndr) mi ammazzerà”. Ma arrivai alla menorah ancora vivo, e riuscii, con grande difficoltà, ad accendere il numero necessario di luci. Tenni un discorso che durò pochi minuti, nonostante non abbia la più vaga idea di cosa abbia detto, e poi, praticamente in agonia, ripetei le sillabe ebraiche che intonò il rabbino.
Finalmente, finalmente cominciammo a scendere, e pensai con gratitudine che a ogni centimetro verso il basso mi stavo allontanando sempre più da Dio e avvicinando al suolo benedetto. I miei guai non erano finiti. Quando tornammo a terra, scoprii che soffrivo di una paralisi nervosa. Non ero capace di muovere le gambe e dovetti essere sollevato fuori dall’autogrù. Mi raddrizzai, e con Janet che mi sosteneva su un lato e Patti (la nipote, ndr) sull’altro, riuscii a trascinare i piedi. Provavo imbarazzo per ciò che Janet mi avrebbe detto, perché mantenne un silenzio sinistro mentre tornavamo a casa (come era solita fare mia madre quando meditava sulla sculacciata che avrei ricevuto una volta al sicuro nell’appartamento). Per evitarlo, dissi, pateticamente: “Avevo paura che se avessi avuto un infarto e fossi morto mi avresti ucciso, Janet”. E lei disse: “No, ma avrei ucciso quel rabbino”.