il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2024
A Berlino un ragazzino di 11 anni è stato braccato da quattro poliziotti perché correva con una bandiera della Palestina
Un ragazzino di 11 anni corre inseguito da quattro agenti di polizia. Ha in mano una bandiera palestinese, loro hanno pistola e manganello. I poliziotti lo bloccano e lo circondano, arrivano i rinforzi. Siamo a Berlino, sulle scale della Gedächtniskirche, la Chiesa della Memoria) dove sono incisi i nomi dei 12 morti dell’attentato al mercatino di Natale del 2016. Il video dell’arresto è diventato virale sui social, termina con la faccia pietrificata del bambino mentre viene scortato da una decina di agenti. Nella capitale tedesca, nonostante sia una metropoli da milioni di abitanti, i genitori incoraggiano i figli sin dai primi anni delle elementari ad andare a scuola da soli, spesso anche usando i mezzi pubblici. Il ragazzino stava partecipando a una manifestazione pro-palestinese. C’erano altre decine di persone con bandiere e cartelli, le forze dell’ordine hanno scelto di inseguire e fermare il più giovane. La polizia ha spiegato che non si trattava di un arresto, ma solo di un fermo per controllare le generalità del minore e contattare i genitori. Sui media tedeschi la notizia non ha trovato spazio.
In Germania, la definizione di antisemitismo è stata ampliata dalla legge e oggi include anche attacchi e critiche contro Israele. Portare una bandiera palestinese o indossare una kefiah (sciarpa/copricapo tradizionale arabo) non è di per sé una violazione, ma nell’ultimo anno è diventato uno dei motivi più comuni per un fermo e identificazione da parte delle forze dell’ordine. Dal 7 ottobre le autorità hanno cercato di imporre alla popolazione non solo la linea politica, ossia il supporto totale alle azioni del governo di Benjamin Netanyahu, ma anche l’agenda del dibattito pubblico. Il cancelliere Olaf Scholz, seguendo le orme di Angela Merkel, ha sottolineato che l’esistenza di Israele è “ragione di Stato” per la Germania. Già nei primi giorni del conflitto è stato vietato l’utilizzo dello slogan “dal fiume al mare” perché ritenuto invito a un nuovo genocidio del popolo ebraico. Scuole e università hanno ottenuto il potere di bandire le manifestazioni contro la guerra o anche solo le bandiere palestinesi.
La censura preventiva, per mano della sempre presente polizia berlinese, ha impedito di parlare all’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis. Secondo le informazioni delle autorità, avrebbe pronunciato un discorso critico contro il governo israeliano, motivo per cui è stato subito bollato come antisemita. I giornali tedeschi rispettano la linea dettata dalla politica. L’inverno scorso, Bild, il quotidiano più venduto d’Europa, ha pubblicato una lista di dieci punti che gli arabi, e solo loro, devono seguire per non cadere nell’antisemitismo. Per mesi le manifestazioni pro-palestina sono state vietate e disperse con la forza. Per le strade sono comparsi migliaia di adesivi dei sionisti antifascisti: nel noto simbolo Antifa della doppia bandiera, quella bianca è sostituita da una bandiera israeliana con la stella di David. Tuttavia, dai sondaggi effettuati nell’ultimo anno, un numero crescente di cittadini, oggi oltre il 60%, chiede un cambio di atteggiamento nei confronti del governo di Tel Aviv.
La repressione del dissenso rimane totale sui mezzi di comunicazione. “Negli studi televisivi tedeschi, i protestanti tentano di spiegarmi come essere una buona ebrea”, ha detto Deborah Feldman, ebrea ultraortodossa che per mesi è stata una delle voci più vibranti nel denunciare lo squilibrio nel racconto del conflitto. In questi 12 mesi ci sono stati diversi casi di intellettuali silenziati per la loro posizione sulla guerra, o solo perché palestinesi. Il caso più eclatante è quello della scrittrice Masha Gessen, ebrea nata in Unione Sovietica e poi naturalizzata statunitense. L’autrice ha vinto il premio Hannah Arendt, uno dei riconoscimenti più alti della cultura tedesca, ma invece della consueta, sontuosa, cerimonia annuale, il premio le è stato conferito in una ristrettissima cena privata. Gessen aveva scritto un articolo sul prestigioso New Yorker in cui paragonava Gaza a un ghetto nazista.