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 2024  settembre 24 Martedì calendario

Intervista a Riken Yamamoto


Per capire come Riken Yamamoto ha vissuto il suo mestiere basta leggere le motivazioni della giuria delPritzker Prize, che assegna l’equivalente del Nobel in questo settore: Yamamoto, 79 anni, quest’anno ha ricevuto il premio «per averci ricordato che in architettura, come in democrazia, gli spazi devono essere creati dalla volontà delle persone». In arrivo in Italia – terrà a Bologna una lectio magistralis il 26 settembre nell’abito diCostruire, Abitare, Pensare, il programma culturale di Cersaie – il maestro giapponese ci racconta il suo percorso e la sua filosofia collegandosi via Zoom dal quartier generale di Yokohama, dove dal 1973 ha sede il suo Riken Yamamoto & Field Shop: uno spazio che è insieme atelier, abitazione, coworking, nel pieno spirito di quell’abitare sociale che per lui è sempre stato essenziale. Al contrario delle archistar globali, ha scelto di lavorare principalmente in Asia, tra Giappone, Cina e Repubblica di Corea. Tra i progetti in cui ha concretizzato la sua concezione, la casa Gazebo a Yokohama, gli appartamenti Hotakubo Housing, dove gli spazi esterni – terrazze, cortili interni, ecc – servono a incentivare la relazioni e i legami con i vicini di casa, ma anche l’Università Seitama e quella di Hakodate,ilYokosuka Museum of Art, e il progetto Home for All, a cui ha lavorato insieme a Kengo Kuma e Toyo Ito, per le zone colpite dallo tsunami nel 2011. Gentilissimo, in camicia marrone a maniche corte e foulard, è l’immagine di quellagrazia ed eleganza minimale che associamo, spesso in maniera stereotipata, al Giappone. Tuttavia ciò che evoca è un Paese per il quale il secondo conflitto mondiale e la distruzione che comportò sono cesure non risolte. Su queste ferite,sulle ferite delle guerre e delle catastrofi naturali, ma su quelle di una società sempre più atomizzata, l’architettura ha la capacità di agire riparando, come accade per la ceramica raku, e di creare il bello laddove qualcosa si è rotto.
Cosa significa per lei un premio come il Priztker ?
«Quando sono stato a Chicago per ricevere il premio, ho capito che il senso non è un riconoscimento ai virtuosismi dell’architettura in sé, ma piuttosto mettere in risalto il legame tra l’architettura e ciò che la circonda, con l’ambiente, con la comunità. Costruire non è sempre una cosa buona per le persone».
L’idea di costruire in maniera democratica e non per il solo gusto del bello la guida fin dall’inizio?
«Io e la mia famiglia abbiamo avuto sempre un legame profondo con Yokohama. Sono nato alla fine della Seconda guerra mondiale, quando era completamente rasa al suolo dalle bombe americane; le nostre città erano in parte ancora di legno, capisce, e furono completamente annientate. Non avevamo nulla. Ci si arrangiava sopravvivendo insieme, si è ricostruito tutto da zero. Forse è in quello sforzo comune che ho intravisto il senso dell’architettura».
Che cosa l’ha influenzata?
Quanto ha contato aver viaggiato in Occidente e quanto la tradizione giapponese?
«Durante la prima fase della ricostruzione, il Giappone si è legato agli Stati Uniti e all’Europa, subendone una profondissima, dirompente influenza; negli anni Sessanta e Settanta, quando io studiavo e poi muovevo i primi passi come architetto, le giovani generazioni hanno cominciato a mettere in discussione ciò che stava accadendo. Io stesso ebbi un ripensamento: misi in questione la decisione di essere architetto e decisi di viaggiare per il mondo. Mi interessava scoprire le società tradizionali e i loro metodi di costruzione, il loro modo di vivere insieme. Sono stato nei Paesi del Mediterraneo, in Sudamerica.
Cercavo un modo di costruire diverso dall’Europa e dal Giapponein rapidissima modernizzazione da cui provenivo. Un Paese capace, a vent’anni dalla guerra, di ospitare le Olimpiadi del 1964, di costruire autostrade e nuovi edifici, ma non di preservare il senso di comunità che si andava sempre di più dissolvendo; anche della nostra tradizione architettonica, così antica, non è rimasto quasi nulla».
L’Italia e la sua storia artistica hanno contato per lei?
«Certamente, e continua ad affascinarmi. Non solo perché l’impero romano ha dato un’impronta all’intero continente europeo, non solo perché le sue tracce sono ancora vive, ma per le sue città. Pompei è talmente viva che puoi sentire ancora gli odori, le voci della gente nelle strade. E questo perché è il contrario dei non luoghi di oggi: era una città commerciale, una città di successo, “densa”, dove tutte le funzioni erano una accanto all’altra. Era costruita da e per una comunità».
È questa lezione che ha cercato di riportare a casa?
«L’atteggiamento culturale, la necessità di aggregazione della società giapponese tradizionale ha bisogno di spazi: persino i bar, i piccoli locali dove si mangia e si beve rischiano di scomparire, sostituiti dalle grandi catene globali. Io, da sempre, ho cercato di lavorare in senso contrario, per così dire su una scala più piccola, per sanare questo paradosso, questa contraddizione. E lavorare su una scala piccola è utile in molti contesti: quando c’è un disastro naturale, ad esempio, come un terremoto o uno tsunami, o nelle comunità di rifugiati, di sfollati quando c’è una guerra».
In un mondo che è a corto di risorse, sempre più affollato e minacciato dal cambiamento climatico, come si deve costruire?
«Mi piace il legno, ovviamente, ma ci sono materie ancora più duttili, l’alluminio e il vetro, che hanno il vantaggio di essere riciclabili. E poi bisogna pensare alle forme: ai grandi tetti delle case tradizionali, ad esempio, che facevano scendere l’acqua, e proteggevano dal caldo e dal freddo».