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 2024  settembre 24 Martedì calendario

Verso le presidenziali

HIGHLAND PARK. La signora Harris è l’eroe che tutti votano, ma è un’altra, non Kamala. Clint Eastwood abita ancora qui, con il suo cane, sceglie Trump, ma anche lui è un altro. Vivono tra case abbandonate, finestre sbarrate con assi di legno ed erba da tagliare. Mancano una farmacia, una scuola superiore e perfino una drogheria. In assenza di locali, ci sono bagni chimici lungo la strada. Un cartello annuncia che il futuro è imminente, ma per questo deserto urbano, ai confini del quale ci sono da un lato un’oasi e dall’altro una cattedrale, il futuro è già transitato. Comunque vada, non ripasserà a novembre, non a Highland Park, un soffio da Detroit. Da decenni si invocano come categoria politica e concetto interpretativo i “forgotten”, i dimenticati d’America, gli ultimi dopo che si sono contati gli ultimi: questa cittadina è la loro capitale, nove su dieci sono afroamericani e queste sono le loro voci.
Comincia dal Michigan dei motori spenti un viaggio pre-elettorale di oltre mille chilometri con sosta in tre Stati chiave (gli altri due sono il Kentucky dei “bifolchi” e la Georgia delle ultime decisioni fatali) e in altrettante cittadine campione, con meno di diecimila abitanti, emblematiche e illuminate male (le altre saranno Jackson e Dalhonega). Nel 2008 il simbolo dell’America media fu Joe l’idraulico. È morto un anno fa, ma alle scadenze elettorali si continua a invocarlo. Nel romanzo di A.M. Homes “Il complotto” un uomo di potere lo dice apertamente: «Abbiamo bisogno di sfruttare la forza di Joe, ce ne sono milioni, in questo Paese. E se non sa fare due più due, per noi va bene…dobbiamo solo dirgli che cosa pensare. Ricordargli che in America democrazia vuol dire capitalismo, armi e meno tasse. È Joe che farà il lavoro».
Eccoli, allora, i Joe di Highland Park: nomi, mestieri, piccoli mondi, moderate speranze. Qui la vox populi, la voce del popolo, non è lavox dei,quella di dio, ma un suono sommesso, che pensa di non poter davvero farsi sentire. Più disincanto che rabbia. Più che una previsione di quanto accadrà, fornisce una visione di quanto possa essere andato perduto. La main street, la via principale, dove altrove in America ci sono botteghe e ristoranti, è una strada di scorrimento e di serrande abbassate: nessuno si ferma.
Un foglio A 4 con la scritta Kamala è esposto nella vetrina di un negozietto di abbigliamento che fa più tenerezza che affari. Lo ha stampato Christine, la commerciante, una giovane afroamericana: ha messo soltanto il nome di battesimo della candidata e l’ha piazzato sotto un profilo femminile e un ramo fiorito di cuoricini: una specie di adolescenziale dichiarazione. Vota da tre consultazioni, mai per Trump: «Penso proprio che sia pazzo, più lo vedo più me ne convinco». Eppure ha retto per quattro anni. «Sì, ma non voleva più andarsene e non era così vecchio come adesso, con il tempo peggiorano: all’ultimo dibattito sembrava fuori di testa. E poi Kamala dice di voler aiutare noi piccoli commercianti, di avere un progetto…». Sì, lo dice: ma lei può dirmi quale sarebbe il progetto? «Questo non lo so».
Se i cartelli piantati nei prati a sostegno dei candidati fossero schede nell’urna qui Harris vincerebbe 41 a 0. Va però tenuto in conto che ci si espone più facilmente per conformismo: nel 2020 Biden prevalse con uno scarto del 3% appena e non si può dare per scontato che la sua vice faccia meglio. Anche chi non c’è stato può aver visto Highland Park, al cinema: era qui la casa di Clint Eastwood in Gran Torino: lui era un vecchio repubblicano scontroso che finiva sacrificandosi per i vicini immigrati. Cerco chi vive nella sua “abitazione”. Passa e si ferma il furgone delle Poste. Chiedo informazioni a Terry la portalettere. È una giovane precaria, che consegna buste danzando al suono della musica dagli auricolari. Sostituisce la titolare per qualche giorno, poi farà altro, magari altrove. Il lavoro è il suo problema principale. Le ricordo che Biden ha appena firmato un atto irrevocabile in favore dei lavoratori e dei sindacati, proprio nel Michigan: «Ha aspettato adesso, è soltanto propaganda elettorale. L’altra volta l’ho votato e non è successo niente. Qui sono quasi tutti per Kamala, a occhio, ma io no. Non mi basta che sia donna e afroamericana come me, no di certo». Ma quando era presidente Trump, aveva un lavoro fisso? «No, per questo non l’ho votato quattro anni fa, ma non mi resta che cambiare ancora. E poi c’è una cosa su Kamala: non credo possa essere a capo dell’esercito americano. Se dovesse succedere un casino non avrebbe la capacità, la freddezza necessaria. Ma tu che cosa stai cercando? La casa di Gran Torino? È in fondo al Rhode Island, qui le strade hanno nomi di Stati, così viaggio senza mai partire. Adesso non ci trovi nessuno. Però se vai più su trovi una specie di controfigura di Clint».
Luca il meccanico, in effetti, ha i capelli grigi, il cappellino da baseball calato sulla fronte, un cane che gli gira intorno e falcia il prato c on un vecchio tosaerba rosso e lucido come la Gran Torino di Eastwood. Il nome italiano gli viene dal padre, immigrato dalla Calabria: «Lui invece si chiamava Vincenzo, ma si è fatto ribattezzare James». Neanche simile. «Voleva calarsi in America, ma io ci sono nato, a me poteva dare il nome che voleva. I miei figli invece hanno nomi americani, loro sono il mio problema, hanno bisogno di casa e lavoro, credo che per questo Trump abbia idee migliori: proteggere l’America e gli americani. Io penso ai miei interessi, sono nel settore delle auto e non voglio le scatole elettriche». Quello di cui ci preoccupiamo di più siamo noi stessi, diceva il personaggio del romanzo di A.M. Homes. C’è altro, Luca?
«Sì, l’immigrazione. Non possiamo continuare a farci succhiare la mammella da tutti quelli che arrivano, il latte deve essere prima per noi che siamo nati e viviamo qui. Il flusso va regolato, come fosse un rubinetto dell’acqua. Ce n’è bisogno? Lo apri. Non ce n’è bisogno? Chiudi». E come la mettiamo con Vincenzo- James? «Al tempo evidentemente c’era bisogno di manovali dalla Calabria».
Al tempo in cui suo padre nasceva, qui la Black Legion uccideva un cattolico falsamente accusato di aver abusato della moglie e pianificava l’omicidio del direttore di giornale che si candidava a sindaco contro uno dei loro. Poi l’hanno sciolta. Oggi resta soltanto qualcuno che ha ancora la forza di arrampicarsi sulla torre dell’acqua per appendere uno striscione del Fronte patriottico con la scritta America First, un’idea risalente a Thomas Jefferson e riproposta per eccesso da Donald Trump.
Il rumore di un altro tosaerba sale dal cortile dell’edificio di fronte: è Bill il giardiniere. Di lui, o meglio di uno che fa il suo lavoro, avevo letto nell’antologia curata da John Freeman “Racconti di due Americhe”, una sorta di romanzo della diseguaglianza a più voci. Uno dei protagonisti è pagato per sistemare i prati davanti alle case pignorate dalle banche perché «nessuno vuole comprare un tugurio affogato in un giardino di erbacce che ti arrivano al mento». Bill, che ha cinismo e ironia, dice: «Sono come il barbiere in un reparto di terapia intensiva: mantengo le apparenze sperando nel risveglio del paziente. Ma qui le cose non vanno mai meglio, ogni anno si riducono la popolazione, i guadagni e tutto. Eravamo la città degli alberi, poi è arrivato il morbo dell’olmo olandese e addio pure a quelli. Trump c’è già stato ed è un miliardario, come può preoccuparsi della gente comune come me o di chi ha perduto questa casa? Voterò Harris, se voterò. Trump dice che è marxista? Magari». Quando il reddito medio è tra i più bassi d’America e il tasso di povertà fra i più alti è difficile scaldarsi senza grandi promesse. Lo pensa anche l’attore Danny Glover che qui girò il film “Highland Park” in cui tentava di salvare la biblioteca. Non c’è riuscito, né nella finzione né nella realtà: è un capolavoro architettonico, ma ha chiuso dal 2002 per mancanza di fondi. Glover è sempre stato per Sanders, Kamala per lui non è abbastanza. Lo è invece per Marie la ricercatrice. Come molti nella sua strada ha organizzato una vendita in giardino delle cose superflue, che in realtà sono di sua madre. È il suo modo di aiutarla a tirare avanti. Sbuca da una rastrelliera di vestiti fuori moda: «Io sono nata in Canada, al momento lavoro in Messico, ho la residenza temporanea. Sono multiculturale. Sono tornata qui per motivi di famiglia e qui voterò. Per Kamala, ancora una volta. Sarà la quinta. Prima vivevo in California e ho votato per lei come procuratore distrettuale e generale, poi come senatore, quattro anni fa come vice e adesso come presidente. L’avevo votata anche alle primarie del 2020, meglio lei di Biden». Ed è sempre stata soddisfatta del suo operato nei diversi incarichi? «Al cento per cento non si può essere soddisfatti di nessun politico. Sull’ambiente, per esempio, credo non abbia fatto e non farebbe abbastanza. Anche sulla politica estera ho dei dubbi. Ma, ehi, l’alternativa è Trump. Io voto solo quando conosco i candidati. Ho conosciuto Kamala e tutti abbiamo conosciuto Trump, come si fa a dubitare?».
Si può, semplicemente, non credere. Dicevo dei confini: l’oasi e la cattedrale. La prima è all’inizio di Higland, Park, il Villaggio Avalon, una zona franca per minori creata da Shamayim Harris, per tutti Mama Shu. Un suo figlio a due anni, Jakob, fu travolto da un pirata della strada. Un altro, Invincible, è stato ammazzato a ventuno. Da allora si dedica ai bambini, ha trasformato gli edifici di Avalon Street nel loro regno per giocare e fare i compiti. È stata votata fra i 10 eroi nazionali in un concorso indetto dalla Cnn. Si candidasse, prenderebbe più voti di Kamala. Anthony il volontario prepara l’evento del fine settimana, la distribuzione gratuita di zainetti: «Ma abbiamo bisogno di aiuto da parte dell’amministrazione, non possiamo continuare a basarci sulla generosità dei privati. Vedi questi lampioni a energia solare? Donazioni. Ce ne sono cinque, Avalon è la strada più illuminata della città, il resto è al buio perché non c’erano soldi pubblici per le bollette. Washington da qui è lontana, non ci vede e non ci immagina neppure. E noi ricambiamo. Non penso voterò, o lo farò per il male minore, ma non so quale possa essere».
All’altro confine sorge la grandiosa cattedrale, fondata nel 1913, quando Henry Ford aprì la fabbrica nel vicino terreno. Robert la guardia esce dal suo posto di osservazione vedendomi sostare perplesso davanti a una riproduzione della grotta di Lourdes voluta dall’arcivescovo Vigneron come ringraziamento per la protezione concessa alle famiglie durante la pandemia. Robert non è cattolico, ma si definisce «spirituale». Non è padre, ma pensa soprattutto «al futurodei giovani: non ho argomenti per scegliere, nessun candidato ha le mie priorità. Ma se vuoi capire dove sta il problema, se ti chiedi il perché di questa cattedrale dopo una striscia di povertà, di quei macchinoni nel parcheggio durante la messa, beh, attraversa la strada». Pochi passi e comincia Boston Edison, il quartiere residenziale di Detroit dove vissero i Ford, governatori, senatori e giudici della corte suprema del Michigan. L’erba è falciata, le 900 case sono tutte in ordine, le finestre rilucono al sole. Ci sono sempre due Americhe e ognuna si preoccupa di sé stessa, ma chi si occuperà di Joe e dei suoi fratelli?