Corriere della Sera, 24 settembre 2024
Viaggio in Russia fra paranoia, tradizione e pulsioni fasciste
Il viaggio di Marzio Mian inizia in una stanza d’albergo di Parigi, dove l’editore di Harper’s Magazine, l’americano John Rich MacArthur, gli commissiona un’inchiesta sulla Russia, perché, del Paese che riempie le news — in tempi di «sanzioni culturali», sostiene l’editore, di «maccartismo culturale» occidentale – sappiamo così poco. Sono quasi tre anni, del resto, che le terre di là da Mosca sono interdette ai giornalisti, e solo due mesi che il reporter del Wall Street Journal Evan Gershkovich è finalmente uscito dal carcere, ed è stato espulso. Si capisce dai primi scambi nell’albergo di Parigi che Mian rigetta i cliché astratti di una Russia arretrata, povera, autoritaria e già sconfitta. Ma rigetta anche di più – e lo scopriremo strada facendo con lui – una certa naïveté dei benintenzionati. Perché lui che il mondo slavo l’ha sempre voluto raccontare entrando nelle teste e nei sentimenti degli «slavi» (da quando fu l’ultimo giornalista occidentale a incontrare Karadzic nella Sarajevo bombardata), scopre chilometro dopo chilometro, incontro dopo incontro, un Paese per il quale – dirà non senza una certa sorpresa, e sgomento – «siamo diventati il nemico». E può ben dirlo, perché è, se non proprio l’unico, uno dei pochissimi reporter al mondo ad averlo visto da vicino.Volga Blues, così si intitola il libro, è un viaggio lungo il fiume di 3.800 chilometri che dura un mese, come «un mese è il tempo che una goccia del Volga impiega dalle sorgenti del Valdaj al Mar Caspio». Nessun altro corso d’acqua, come gli spiega alla partenza il direttore dell’Ermitage, rappresenta così tanto per la Russia. «È l’energia della Patria, totem e destino. È l’autobiografia di un popolo».
Mian parte con un van insieme all’amico fotografo Alessandro Cosmelli, e due russi, Katja e Vlad, che si sono presi il rischio di accompagnarli. E così tappa dopo tappa, o meglio quadro dopo quadro mentre scendiamo da San Pietroburgo al Caspio e i paesaggi cambiano dalla taiga alla steppa, mentre incontriamo suore, padri spirituali di Putin, amici del ceceno Kadyrov, soldati reduci del Donbass, si svela un Paese paranoico, inquieto, smisuratamente sentimentale, lirico e generoso, ma anche imbevuto di tradizionalismo, sovietismo asiatico e pulsioni fasciste.
Mian è un documentarista della scrittura: le sue città sembra di vederle. Viene in mente Buonanotte, signor Lenin di Tiziano Terzani, il suo viaggio nella periferia dell’Impero sovietico degli anni 90 che stava collassando e di cui questo libro può essere un sequel: ma nessuno immaginava un’evoluzione così regressiva. Così come Mian sembra possedere la tecnica della miniatura di un grande saggista tedesco, Florian Illies, che ricostruisce le epoche storiche attraverso una miriade di personaggi minori.
Il finale è ad Astrakan, sul Caspio. Ma nel porto dei mille traffici, dove la Russia si è affidata all’Iran e all’Oriente voltando le spalle a noi – finalmente capiamo come sopravvive quasi immune alle nostre sanzioni – non si respira la liberazione del mare. I due compagni di viaggio russi si sono rivelati diversi da quel che apparivano – il rapporto con loro darà al libro una dimensione romanzesca —, e quando proprio alla fine tutti temiamo che scatti la trappola, l’addio diventa quasi una fuga. Dalla Russia e da un orizzonte che incombe minaccioso e soffocante.