Corriere della Sera, 24 settembre 2024
Un anno a caccia di Sinwar
I contatti tra Yahya Sinwar e il «mondo di sopra» si sono rarefatti nelle ultime due settimane. Un silenzio che ha spinto a ipotizzare che sia morto. Molto caute le fonti ufficiali, i servizi indagano per capire se sia solo una voce o c’è del fondamento in un duello ripartito dopo l’assalto del 7 ottobre.
Gli israeliani creano l’unità speciale interforze Nili incaricata di scovare ed eliminare i capi nemici. Ha carta bianca, può usare ogni mezzo, dal veleno al missile, dispone di fondi per corrompere in un «mercato» dove c’è sempre qualcuno pronto a vendere. Sul leader c’è una taglia di 400 mila dollari, 300 mila sul fratello Mohammed, figura chiave delle Brigate al Qassam.
Una donna ostaggio racconta, dopo la liberazione, di aver visto Sinwar in un tunnel, era venuto per verificare le condizioni dei prigionieri. L’unico avvistamento di un testimone diretto. Un’apparizione prima che l’Idf investisse i quartieri con tank e bulldozer.
Gli israeliani conducono due operazioni a Khan Younis, interventi innescati da segnalazioni ritenute precise. Gli informatori hanno suggerito che il palestinese ha lasciato da tempo la zona centrale per nascondersi dove è nato.
Gli Usa, che insieme agli inglesi hanno schierato droni e aerei da ricognizione, mettono a disposizione una task force per raccogliere dati sugli ostaggi e sugli ufficiali più importanti. Mossa della Casa Bianca nella speranza che Netanyahu rallenti gli attacchi riducendo le vittime del bagno di sangue.
L’Idf diffonde un video, risale al 10 ottobre. Mostra Sinwar, la moglie e i figli in una galleria. Con loro Mohammed. Poi un secondo con il presunto «covo», ancora sottoterra, arredato, tra pacchi di denaro e soldi. Sono «pezzi» della storia, tracce tuttavia fredde come lo saranno altre. Qualche settimana dopo girano notizie su una presunta malattia di Yahya. E subito dopo tornano le voci – messe in giro forse ad arte – di una fuga all’estero, magari per curarsi. Sono graffi che non scalfiscono l’immagine tra i seguaci.
Gli 007 precisano: il latitante è sempre a Khan Younis e non a Rafah. Gli americani fanno sapere di aver offerto a Tel Aviv nuovo aiuto a patto che rinunci a un’offensiva massiccia sul settore sud.
Per i giornali arabi solo due-tre persone sanno dove si nasconde Sinwar, sostengono che userebbe i messaggeri ai quali affida i pizzini e in qualche occasione impiegherebbe una linea telefonica protetta. Forse indossa i guanti per non «lasciare» il Dna sui foglietti.
Gli spostamenti del leader – dicono – si sarebbero ridotti in quanto il martello israeliano lo ha sfiorato. Incerta la sorte di Mohammed Deif, dato per liquidato in uno strike mentre Hamas nega. Durante i negoziati sulla tregua spunta una tesi: Sinwar ha chiesto garanzie, tra le condizioni c’è quella di non essere eliminato. Un ex alto ufficiale dello Shin Bet, però, ha offerto una diversa interpretazione: il leader resterebbe solo 24-36 ore in una galleria. E il giornalista Yossi Melman scrive che in almeno cinque occasioni l’Idf ha avuto dritte precise sul nascondiglio ma non sono riusciti a chiudere la morsa.
Attorno al 12 i mediatori sostengono di avere difficoltà nel «parlare» con Sinwar, immerso nei tunnel. Il 16 rispunta con messaggi agli Houthi e al presidente algerino Tebboune ma per l’intelligence sarebbero stati scritti da un «assistente». Poi di nuovo l’allentamento dei collegamenti con l’esterno, con due scenari. Il primo porta a pensare a una sua uccisione, per ora priva di conferme. Il secondo è legato alle regole di sopravvivenza. Dopo il doppio colpo del Mossad contro l’Hezbollah, si è isolato ancora di più, limitando i contatti. Gli esperti ribadiscono che è meno arrogante di altri capi, ha studiato gli israeliani sul piano tattico e «mentale». È consapevole che i «cacciatori» possono arrivare a lui seguendo le orme di qualche stretto collaboratore; dunque, resta in guardia.