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 2024  settembre 23 Lunedì calendario

Intervista a Lucia Occone

Si è stancata delle parti da caratterista, ma anche dei leoni da tastiera, degli stereotipi e di tutte quelle «rotture che abbiamo noi donne, dal balsamo per i capelli alla crema corpo, in un parola la manutenzione che, a furia di doverla fare, diventa come un secondo lavoro». Lucia Ocone ha la satira nel sangue, d’altra parte, dopo i corsi di recitazione, ha lavorato con Gianni Boncompagni, con la Gialappa’s e con Paola Cortellesi, solo che nella vita, a un certo punto, arrivano le svolte, o, almeno, il desiderio di averle: «Ho fatto tante cose, anche un po’ sopra le righe, adesso, a 50 anni compiuti, vorrei farne altre, diverse, sperimentarmi in un ruolo serio, drammatico».Ha mai detto dei no?«Tanti. Per esempio quando mi hanno proposto un ruolo minore in cui dovevo fare quella che fa ridere e basta. Ho sentito il bisogno di scollarmi da quell’immagine, di cercare un percorso artistico che non fosse fatto solo di quel tipo di prove, magari spinte all’eccesso».Per esempio?«A un certo punto, anni fa, ho iniziato a rifiutare personaggi in romanesco, non volevo essere etichettata solo come “coatta”. Sono una comica, ma, di base, sono un’attrice, vengo dal teatro, potrei fare di tutto. In genere, poi, nei film, ti propongono puntualmente la parte della “moglie di”, della “sorella di”, dell’ “amante di”, insomma c’è sempre un “di"».Le è capitato di impuntarsi, «no, questa battuta non la dico»?«Certo, stravolgo sempre tutto, anche quando vado a fare i provini metto qualcosa di mio, una personalizzazione, e mi è anche successo di dire “no, questa cosa non me la sento e non la dico”. Sono una rompiscatole».Secondo lei, nel mondo del cinema, le donne hanno acquistato più voce in capitolo?«Qualcosa sta cambiando, molto lentamente, lo spazio ce lo stiamo prendendo, ma siamo lontane dalla meta. Sono contenta di vedere che oggi il numero delle registe è aumentato, ma parliamo ancora di una minoranza».In Ari – Cassamortari, sequel della commedia nera I cassamortari, di Claudio Amendola (su Prime Video da oggi), torna ad essere Maria Pasti. Come la descriverebbe?«Stavolta Maria vive una sorta di redenzione, la vediamo alle prese con i preparativi per il matrimonio, ma la troviamo anche cambiata nel look, meno panterona mangiauomini, più casta, più coperta. Non smette di frequentare i vedovi, ma si butta sul cibo e sulla cucina gourmet preparando piatti pieni di spezie e di radici».Cosa le piace di Maria Pasti?«Mi piace perché è lontanissima da me. Lei cucina, io no, mi limito a mangiare».Mai pensato di passare alla regia?«No, non mi attira più di tanto. In questo momento mi piacerebbe molto, invece, dirigere uno spettacolo teatrale, ma non riesco a farlo, sono una vigliacca, ho paurissima… So, però, che quando finalmente ci riuscirò, dirò a me stessa “ma perché non l’ho fatto prima?"»Ha dichiarato più volte che, in Italia, quando una donna non ha figli è giudicata male. È tuttora così?«Certo che sì. La gente pensa che se non ti fai una famiglia, sei sicuramente una persona egoista perché pensi solo al lavoro. La verità è che ogni vita è diversa e ognuno dovrebbe farsi i cavoli propri. Questo vale in tutti i campi. Se sei grassa dicono che dovresti dimagrire, se sei magra che dovresti ingrassare, se sei mora che dovresti farti bionda e viceversa. Per fortuna esiste la libertà di scelta, secondo me le persone tendono a proiettare le loro vite su quelle degli altri e a giudicarle in base alle proprie valutazioni».È impegnata sul fronte della prevenzione contro il cancro al seno. Perché, tra le tante cause per cui battersi, si è concentrata proprio su questa?«Penso sia una cosa importante, ognuna di noi, in un modo o nell’altro, è entrata in contatto con la realtà del tumore al seno. Fare informazione e divulgare il valore della prevenzione è fondamentale, soprattutto tra le ragazze giovani, che tendono a sottovalutarla. La prevenzione è tutto, se la fai ti puoi salvare, purtroppo si tende a evitarla, soprattutto perché si ha paura».Per chi fa il suo mestiere, in particolare per i comici, la presenza sui social è decisiva. Lei, invece, li frequenta poco. Perché?«È vero, li considero un “giocherello”, si fondano su un linguaggio diverso, velocissimo, io stessa, quando vedo certe cose online, mi accorgo che, se durano troppo, tendo a “scrollare” perché mi annoio. No, i social non sono per me, non sento la necessità di raccontare a tutti che cosa sto facendo, mi è capitato di avere, in passato, problemi di salute, ma non mi è mai venuto in mente di mettermi online e farlo sapere. I social sono come la piazzetta del paese, ognuno dice la sua. Protette dalla tastiera, le persone sfogano cattiveria e invidia sociale, sputando veleno su tutto. E poi ho notato una cosa inquietante».Che cosa?«La gente non legge nulla. Un sacco di volte succede di imbattersi in un post in cui uno parla del proprio cane chiamandolo per nome, immediatamente sotto c’è subito chi scrive “e come si chiama il cane?”. Lo stesso accade con i luoghi di cui vengono descritte le bellezze, con tanto di indirizzi e posizioni, c’è sempre qualcuno che chiede “e dove sta questo posto?”».Sarà nella giuria del “Premio Raffaella Fioretta” durante a Alice nella città la sezione autonoma e parallela della Festa del cinema di Roma che si apre il 16 ottobre. Che tipo di giurata sarà?«Non guardo mai la parte tecnica dei film, vado sempre sulle emozioni. Mi viene in mente una frase di Jim Carrey “se hai la lebbra, vai al cinema e ridi, la lebbra non ti passa, però per un’ora e mezza non ci pensi”. Quello che conta è far entrare il pubblico in una dimensione differente, guarderò soprattutto a questo».Sogno nel cassetto?«Non ce l’ho. Quasi quasi ne parlo con la psicologa la prossima volta che ci vado. Forse ho un sognetto ce l’ho… A breve. Riuscire a superare la paura di fare lo spettacolo teatrale». —