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 2024  settembre 23 Lunedì calendario

Intervista a Diego Nepi

Diego Nepi, amministratore delegato di Sport e Salute, il suo nome sta nella mappa del potere dei dirigenti pubblici dello sport italiano ma non su Wikipedia. Il potere si nasconde quando è troppo o troppo poco: in questo caso, quale delle due?
«La mia idea è che il potere, soprattutto se amministri il bene pubblico, sono solo i fatti e i risultati. Sono questi i due elementi che lo compongono, o quantomeno la mia formazione e le mie esperienze mi portano a pensarla così. Ho una squadra di cui non mi sento il capitano né tantomeno l’uomo immagine, bensì l’allenatore, quindi sto in panchina. Se produco fatti e ottengo risultati non serve neanche che si parli di me».
Come inizia la sua storia?
«Nato e cresciuto a Siena all’inizio degli anni Settanta. Una madre cosmopolita, che ha vissuto un po’ ovunque in giro per il mondo; papà senese doc, agricoltore, legato alla terra. Ho preso quel che era necessario da entrambi: da mamma una sorta di visione internazionale sulle cose della vita, da papà il fatto che il legame con la terra può essere persino fine a sé stesso, l’amore anche a prescindere dai risultati, l’amore per la terra perché è tua, al di là di quello che ti dà».
Contrada?
«Istrice».
Contradaiolo tiepido o bollente?
«Non esistono contradaioli tiepidi. Esistono gli osservanti e i meno osservanti. La differenza la fa il tempo che hai a disposizione, solo questo».
Lei ne ha?
«Poco. Ma quando posso, ovviamente, non perdo il Palio».
Lei è stato bambino, adolescente e giovane adulto a Siena tra gli anni Ottanta del secolo scorso e la fine del Millennio, nel pieno dell’espansione del Monte dei Paschi. Eppure finora non ha citato la banca.
«Il Monte dei Paschi è stato l’apparato cardio-circolatorio della città, con ramificazioni che l’hanno raggiunta ovunque, in qualsiasi ambito e in qualsiasi contesto. Ma rappresentava tutto quello che mi era più estraneo della mia stessa terra: un sistema chiuso, quasi medievale, destinato a servire e a servirsi di chi stava dentro e a tenere fuori chi stava fuori. Posso spiegarglielo con un esempio semplice?».
Prego.
«Gli amici che mi piaceva frequentare a Siena negli anni dell’università erano tutti di fuori, fuori città e fuori regione, da Bolzano alla Puglia. Ragazzi venuti a frequentare la facoltà di Scienze bancarie attratti da un sistema, quello del Monte dei Paschi, che in realtà in fondo respingeva gente con una testa, come dire, diversa».
Lo dica chiaramente: da come cita quel sistema, lei non è mai stato un elettore di quel centrosinistra che ha governato Siena e orientato anche molte scelte della banca, dai partiti post-comunisti al Pd.
«Non sono mai stato attratto dagli estremismi. Neanche da quelli che non lo sembravano nella forma ma lo erano nella sostanza».
Mai votato a sinistra?
«Mi sono mosso dal centro, votando le persone più che le liste o le coalizioni. Guardando alle idee e alla creatività dei singoli più che a quella dei partiti».
Alla guida esecutiva di Sport e Salute è stato nominato perché è vicino alla destra?
«Ovviamente nella mia nomina c’entra il governo, il ministro dello Sport Andrea Abodi, il ministero dell’Economia e i ministeri che fanno parte della governance, dall’Istruzione all’Università...».
Tanto per non girarci troppo attorno: lei conosce o comunque è amico della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni?
«Ho avuto modo di conoscerla solo in occasioni istituzionali. Però posso dire in tutta sincerità che la stimo come donna e che apprezzo il percorso che ha fatto e i risultati che ha ottenuto. Per essere ancora più chiari...».
Lo sia.
«Mi incuriosiva molto anche quando guidava un partito del tre percento, che è riuscita a portare dove tutti sappiamo».
Lo snodo della sua carriera?
«Nel Duemila, quando sono tornato a scommettere sull’Italia».
Gli impianti e i tempi
Per fare un centro sportivo non posso impiegare 7 anni. Perché se passa il Sinner di turno, lo perdiamo. E anche tutti gli altri hanno diritto a praticare
Perché, prima dove stava?
«In Australia, a lavorare all’aeroporto di Sydney con la società Larry Smith: mi occupavo di tutto quello che non fosse aviation, che non avesse quindi a che fare con i voli, dalla finanza ai negozi e i centri commerciali».
Che cosa ha imparato in Australia?
«A parte tante pratiche che laggiù erano già in voga all’epoca, come quella di riunirsi a distanza, una cosa importantissima che ho imparato è finire entro le cinque del pomeriggio».
Prego?
«A Milano, dov’ero stato prima, si faceva bella figura a lavorare fino a tarda notte. In Australia, invece, tutto questo veniva considerato una pratica disdicevole. Perché andare oltre l’orario di lavoro non denotava abnegazione nei confronti dello stesso bensì il non essere stati in grado di fare quello che dovevi fare nel tempo che c’era a disposizione, e non oltre. È come il compito in classe, ha presente? Hai un compito e un tempo. Devi farlo bene e consegnare o in anticipo o sulla sirena. Non hai tutta la notte per farlo».
A consegnare troppo in fretta a volte si commettono degli errori.
«La gestione dell’errore è un’altra cosa che mi sono portato dalle esperienze all’estero. Tutti sbagliamo, tutti commettiamo errori. Ho imparato molto bene che l’errore, nel mondo del lavoro e non solo, va riconosciuto, ne va riconosciuta a pieno titolo la paternità. Nel nostro sistema, invece, va ancora troppo di moda lo scaricabarile, la negazione, occultare sotto il tappeto gli errori che vengono commessi».
Il suo nuovo impatto con l’Italia?
«Nel Duemila, con la privatizzazione della società Aeroporti di Roma. Ho portato l’esperienza che avevo maturato a Sydney. E qui sì che ho iniziato ad avere a che fare con la politica. I comuni di Roma e Fiumicino, certo; ma ricordo parecchie battaglie con i rappresentanti dei tassisti e tantissimi passi in avanti che sono stati fatti rispetto a com’era la situazione precedente. Vede, io penso che, quantomeno da un punto di vista pubblico, l’area più importante di un aeroporto siano gli arrivi. È il biglietto da visita di una città o di uno Stato, non puoi presentarti con una situazione di caos».
Il suo rapporto con lo sport?
«Praticato sempre e di continuo: calcio, pallavolo, pallacanestro...».
E visto?
«Ah, su quello penso di avere numeri da campionato del mondo. Non conosco tante altre persone che abbiano alle spalle un passato fatto di così tante, e tante, e tante ore di sport visto in tv, nazionale e internazionale, di qualsiasi disciplina e a qualsiasi ora del giorno e della notte».
Quando ha iniziato a lavorare con lo sport?
«Quasi vent’anni fa avevo due offerte di lavoro davanti a me: una da Finmeccanica, l’altra da Coni Servizi. Ho scelto la seconda, quella della passione, che tra l’altro era anche la meno remunerativa».
Perché lo sport italiano, a livello di federazioni, trasuda sempre litigiosità?
«Dai tecnici agli atleti, come Italia abbiamo individualità pazzesche, con pochi rivali all’estero. Metti tutte queste individualità a fare una squadra e si piomba nel caos».
Si sa spiegare il perché?
«Perché lo sport italiano ha un’organizzazione verticale. Chi sta sopra conta, chi sta sotto non conta nulla e combatte per prendersi un posto più in alto. Non va bene. Da amministratore delegato di Sport e Salute, con una squadra di settecento persone, ho capito che le nostre idee vanno avanti solo se camminano sulle gambe degli altri. Altrimenti, da una parte o dall’altra della filiera, si fermano. E non si combina nulla. Ho, anzi abbiamo, degli obiettivi su cui abbiamo fatto passi in avanti molto importanti e che sono troppo ambiziosi per essere mancati: lo sport deve tornare a pieno titolo dentro tutte le scuole attraverso la riqualificazione delle palestre scolastiche e l’insegnamento dei valori della sana competizione, lo sport come strumento determinante nella lotta all’obesità infantile, lo sport che deve essere praticato oltre i dodici anni di età, dato che il 75 percento di chi lo pratica si ferma a quell’età...».
Perché succede?
«Perché o sei bravo ed entri nel giro dell’agonismo, dei tesseramenti e quindi dei possibili soldi che puoi generare potenzialmente un domani; oppure via, non servi a nulla. Invece la nostra idea è che lo sport dev’essere di tutti e per sempre. Accessibile a tutti, al centro così come in periferia. Le faccio un esempio: per costruire un centro sportivo o un campo, io non posso impiegarci sette anni, lo devo terminare molto molto prima. Perché se in quei sette anni passa il Sinner di turno, ce lo perdiamo. Ma perché anche chi non è un potenziale Sinner non può essere privato del diritto di poter praticare il suo sport e di farlo in piena libertà e senza per forza provenire da una famiglia ricca o benestante. Lo sport è uno dei motori dell’ascensore sociale. Non possiamo come Paese non tenerne conto».
Come vive il proprio incarico un dirigente pubblico?
«Con la consapevolezza di essere un precario. Un bel giorno cambia tutto e cambi anche tu. È a quel punto che ti misuri con le cose che la tua squadra ha realizzato, con i risultati che hai prodotto, se l’hai fatto».
E poi, quando finisce?
«È semplicissimo. Prendi una scatola grande quanto le cose che hai portato nel tuo ufficio, le infili una per una dentro quella scatola, raggiungi la porta, guadagni l’uscita, saluti tutti. E te ne vai».