Corriere della Sera, 23 settembre 2024
Andreotti jr. contro le dichiarazioni di Rita Dalla Chiesa
«La tentazione di parlare con Rita Dalla Chiesa mi è venuta. Proprio sabato ho chiesto a una persona che la conosce se non fosse il caso di parlare di suo padre e di mio padre, Giulio Andreotti. Ma se non succede non mi strappo i capelli...». Stefano Andreotti, terzo dei quattro figli dell’ex presidente del Consiglio e poi senatore a vita, cerca di parlare con distacco delle ultime allusioni alle responsabilità paterne nell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, riemerse in una intervista televisiva alla figlia Rita.
Che effetto le fa, dottor Andreotti, rivedere suo padre evocato con contorni luciferini?
«In passato abbiamo provato, io e la mia famiglia, tanta rabbia».
E adesso? Dopo la rabbia, la rassegnazione?
«Nessuna delle due. Oggi prevale l’indifferenza. Gli attacchi sono qualcosa di periodico, e ci abbiamo fatto una certa abitudine. Mi addolora un po’ che nonostante i risultati dei processi e le ricerche storiche, si venga rischiacciati sulla cronaca spicciola. Mi pare che la storia stia superando la demonizzazione di una intera classe politica registratasi negli ultimi anni del Novecento. Poi, però, ci troviamo di fronte a certe belle uscite di fronte alle quali si è indifesi».
Ci si abitua come figli, come famiglia?
«Non è facile. Ma d’altronde certe prese di posizione della famiglia Dalla Chiesa risalgono agli Anni Ottanta, con mio padre ancora in vita. Sono portato a giustificare l’amarezza di chi ha avuto dolori così terribili. Ma sono passati decenni, ci sono stati processi che hanno reso giustizia a mio padre. Eppure si tende a darne un’immagine avulsa dalla verità storica. Tra l’altro, non farne il nome sottintendendolo mi pare, a dir poco, una presa in giro. Ma anche dai processi ai quali qualcuno ha voluto dare interpretazioni di comodo, della montagna di accuse non è rimasto quasi nulla».
Inutile chiederle quali erano i rapporti tra suo padre e Dalla Chiesa. Dirà che erano ottimi…
«Non lo dico io: erano ottimi. Di rispetto e di stima, per il ruolo che il generale ebbe come artefice della lotta al terrorismo delle Brigate rosse. Fu mio padre a dire a Francesco Cossiga nel 1979 di non smantellare il nucleo creato dal generale per sconfiggerle. E le lettere tra lui e Dalla Chiesa lo confermano».
In questo caso ci si riferisce alla lotta alla mafia.
«Sì, ma passarono due, tre anni, non cento: dal 1979 al 1982. E Dalla Chiesa frequentava spesso mio padre, quando passava per Roma. Chiedeva di essere ricevuto benché mio padre non avesse incarichi. Mio padre ci raccontò che il generale una volta si era quasi messo a piangere per i contrasti in famiglia con il figlio, per motivi ideologici».
Che cosa si sente di dire alla famiglia Dalla Chiesa?
«Umanamente non dico nulla, per rispetto. Ma se si fosse più obiettivi, si finirebbe di tirare mio padre per i capelli. Lui è morto con la serenità di chi non aveva fatto niente di male».
Non andò al funerale, e gli è stato rimproverato...
«Lo so, e gli hanno attribuito la battuta che lui preferiva andare ai battesimi. Non so se l’abbia detta davvero. Ma allora non aveva incarichi. E comunque era in rapporti ottimi anche con la famiglia della povera Emanuela Setti Carraro, assassinata con lui a Palermo».
Lei con sua sorella Serena curate l’archivio. Leggendo le carte non le è mai venuto un dubbio sull’assassinio del generale?
«Non scherziamo. Mio padre mai avrebbe chiesto di ammazzare qualcuno. Chi lo dice non l’ha mai conosciuto. È un’offesa alla sua memoria. Nelle lettere da aprire post mortem giura davanti a Dio di non avere mai avuto a che fare con la mafia, con l’omicidio Pecorelli, con quello di Dalla Chiesa. Che poi in Sicilia il malaffare incrociasse a volte la politica, è noto».
Vi sentite diffamati?
«Certo, si cerca di diffamare mio padre. E ci sarebbero gli estremi per reagire per via giudiziaria. Ma il suo insegnamento è stato quello di lasciare perdere. Noi lo rispetteremo».
Non le viene voglia che su suo padre scenda l’oblio?
«A volte sì, soprattutto sulle falsità su di lui. Ma sta già scendendo. I più non sanno neanche chi siano Andreotti, Bettino Craxi o Amintore Fanfani. Oggi, sui social, il suo nome è sempre meno presente. E mi illudo che dipenda dalla fine della demonizzazione di una classe politica che ha avuto invece grandi meriti. Voglio essere chiaro: sono, siamo orgogliosi di lui, di quanto ha fatto e ci ha insegnato. E continuerò a battermi perché se ne dia una visione reale e non falsificata».