Corriere della Sera, 23 settembre 2024
Open arms: diritti e poteri
Passa tutto in fretta, come se mai niente fosse. Anche la frase con cui Matteo Salvini ha accolto la richiesta del Tribunale di Palermo di una condanna a 6 anni per sequestro di persone, in relazione alla vicenda Open Arms, è già scivolata via tra le onde artificiali sollevate dalla politica.
Il principale capo d’accusa è noto: impedire per molti giorni l’accesso al porto di Lampedusa a una nave di soccorso con naufraghi a bordo, mettendo così a rischio le vite di migranti appena salvate. Tra le molte cose che il nostro vicepresidente del Consiglio, nonché ministro dei Trasporti, ha detto a commento di un passaggio processuale comprensibilmente sgradito, ce n’è una che meriterebbe un più di attenzione: «Anche se mi condannano, non mi dimetto». E sul tema ha già ricevuto rassicurazioni formali, oltre che solidarietà politica, dalla premier Giorgia Meloni e dai colleghi di governo di maggior peso. Tanto, il problema si porrà chissà quando. «Non patteggio, avanti fino in Cassazione», ha rassicurato il leader leghista. Quindi, anche se si arriverà a sentenza di primo grado entro fine anno, l’ultimo capitolo giudiziario ha una data non prevedibile.
Il punto non è dunque il futuro prossimo del vertice a tre punte dell’esecutivo (Meloni, Tajani e appunto Salvini), quanto la sfida lanciata da una di quelle punte ai magistrati che gli hanno caricato sulle spalle «non una bella cosa», e di conseguenza alla Magistratura di cui la procura di Palermo è parte. La martellante campagna a favore dell’imputato, e contro chi si è permesso di metterlo in quella condizione, sta portando valanghe di insulti e minacce a Marzia Sabella, Geri Ferrara e Giorgia Righi, i tre pm che hanno avanzato la richiesta di condanna. E la delegittimazione del loro operato parte dall’alto, con il senatore Gasparri, uno tra cento, che ammonisce: «Basta con questo atteggiamento eversivo di alcuni settori della magistratura, che si vorrebbe sostituire ai poteri legislativo e esecutivo».
E in fondo il nodo è proprio questo. Tornando alla frase «anche se mi condannano, non mi dimetto», entriamo di diritto nel campo dello sbilanciamento dei poteri: seguendo la risoluta promessa di Salvini, un capo politico può dunque serenamente continuare a rappresentare il proprio Paese, addirittura da vicepremier, anche se giudicato colpevole da un tribunale e per un reato alquanto odioso. Non per l’imputato, ovviamente: «L’articolo 52 della Costituzione recita che la difesa della patria è un sacro dovere del cittadino. Mi dichiaro colpevole di aver difeso l’Italia e gli italiani». Da chi? Dalla minaccia fantasma rappresentata da 147 migranti, di cui 32 minorenni, raccolti in mare dalla Open Arms e tenuti per 19 giorni senza il permesso di attraccare, in perfetta osservanza del Decreto sicurezza bis ma in spregio del diritto internazionale che prevede in casi simili la prevalenza dell’umanità. Siamo nell’agosto 2019, periodo dal 2 al 20, il picco più eclatante dell’ascesa dell’allora ministro dell’Interno, uomo fortissimo del governo Conte 1.
Il vocabolario di Matteo Salvini, a parte l’archiviata parentesi di gattini e rosari, è abbastanza perentorio e assertivo. Ne riassume l’energica baldanza un’altra intemerata relativa al processo di Palermo: «Conto su assoluzione, ma comunque io non mollo di un millimetro». Fa tutto parte del «fattore Salvini», una variabile inedita della nostra scena politica. Diventa segretario del partito che fu di Bossi ad appena 40 anni, nel 2013, con la Lega boccheggiante sotto il 4 per cento. Dalla sede desertificata di via Bellerio a Milano, comincia a ridare un’identità alle fila padane in rotta, spingendo sui tasti di ordine, sicurezza, identità nazionale, contrasto deciso a ogni forma di inclusione. Ha grande successo la sua missione a bordo di una ruspa, nel tentativo di andare a «bonificare» un campo rom. Il solco è tracciato, il disegno chiarissimo: sfruttare tutto, anche i social, per intercettare paure e insofferenze da tempo soffocate, liberarle dai vecchi pudori e farne invece bandiera e orgoglio identitario. La conseguenza è una resurrezione elettorale che porta la nuova Lega al 17,35 per cento (Politiche 2018) e addirittura al 34,26 per cento alle Europee del 2019. L’arco di trionfo è l’ingresso dei bagni Papeete di Milano Marittima, con Salvini a petto nudo alla consolle e ragazze in bikini che ballano in spiaggia l’inno di Mameli. La prova di prepotenza su Open Arms nasce in questo clima da film di Sorrentino.
Ma la troppa euforia è cattiva consigliera. Invece di incassare il dividendo politico di essere a quel punto il leader del primo partito, Salvini esonda, chiede pieni poteri alla folla balneare che l’acclama, sfiducia il premier Conte, il governo cade, e da lì comincia l’altro versante della sua parabola, che vede la Lega perdere quota fino a scivolare all’8,79 (Politiche 2022). Le spirali al ribasso non si arrestano mai da sole. Forse sarebbe utile un ripensamento di strategia, la scelta di un profilo più in linea con le difficoltà estreme del mondo, Italia compresa, e quindi la necessità di leader che cerchino di comporre le divisioni invece di alimentarle. Al momento però non sembra questa la via scelta da Salvini, fiero di aver incassato, sul caso Open Arms, il caldo plauso di Viktor Orbàn («è il patriota più coraggioso e ricercato d’Europa») e la vicinanza di Elon Musk, non esattamente un pompiere: «Bravo!», gli ha scritto in risposta al salviniano «Sei anni di carcere per aver bloccato gli sbarchi e difeso l’Italia e gli italiani? Follia. Difendere l’Italia non è un reato». E lo stesso Musk, attesa star del prossimo raduno di Pontida del 6 ottobre, ha provveduto a infuocare la polemica già in atto con la Magistratura: «Dovrebbe essere quel folle pubblico ministero di Palermo ad andare in carcere per sei anni».
Ecco, «quel folle pubblico ministero», cioè il procuratore aggiunto Marzia Sabella, rappresenta un principio che è impresso in ogni aula di tribunale e nel cuore della nostra Costituzione: la legge è uguale per tutti. E il processo al ministro Salvini, cominciato nell’aula bunker del carcere Pagliarelli, dovrebbe essere un processo come gli altri, dal cui esito finale scaturiranno assoluzioni, condanne, avanzamenti o interruzioni di carriera. Nel caso di accertata colpevolezza, il buon senso, neanche quello istituzionale ma il comune buon senso civile, prevederebbe di trarne le conseguenze, specialmente se si occupano posizioni di alto governo del Paese. Dire, con larghissimo anticipo, «tanto io non mi dimetto», fa pensare a quella scritta nella fattoria immaginata da George Orwell: tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
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