Domenicale, 22 settembre 2024
Quando Pablo Echaurren fece a pezzi la Bardot
Ne sono consapevole, non so fare i ritratti. Sono negato. D’altronde sono un artista contemporaneo, non ho studiato per fare il pittore, non sono andato a lezioni di nudo, non ho sudato per copiare la statuaria classica e compagnia bella. Una volta Giorgio de Chirico, che ho incontrato ai miei albori, mi chiese se frequentavo la gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti. Allorché gli risposi che no, non c’ero mai stato, mi guardò come se fossi trasparente. Un niente.Ma Piero Fornasetti era convinto che io fossi un pittore e io a ripeterglielo: «Non sono capace a fare i ritratti». Era il 1983 e Fornasetti s’era messo in testa che io, insieme ad altri, facessi proprio un ritratto, e non uno qualsiasi ma il ritratto di Brigitte Bardot. In vista dei suoi (suoi di Brigitte) 50 anni.
Che potevo dirgli io per dissuaderlo? Lui era il gentleman allucinato, il rimescolatore della classicità nella surrealtà, il maestro delle infinite variazioni su tema unico. Il Raymond Queneau del design. Non mi sentivo proprio di deluderlo. Mi adeguai alla comanda.
Voleva che fosse in formato cartolina da mettere accanto ai contributi di altri artisti alla Galleria dei Bibliofili a Milano.
È così che gli disegnai una B.B. fatta a pezzi, frammentata, come in un puzzle, una tessera qua e una là, alla rinfusa. Tipo quei fastidiosi tiramisù scomposti che vanno per la maggiore tra i cuochi incapaci.
Non ne andavo particolarmente fiero ma lui, Fornasetti, era uno oltremodo generoso e scelse proprio il mio piccolo disegno per ingrandirlo, riprodurlo e fargliene omaggio, personalmente. Era indiscutibilmente un ardimentoso, anche.
Ne stampò cento copie e gliele consegnò per l’approvazione, servivano per finanziare una campagna anti vivisezione. Ma lei (lei Brigitte) appena le vide andò su tutte le furie, si adirò, per usare un termine purgato.
Non ci stava ad essere così brutalmente smembrata, seppure in effigie. Gli disse che quelle labbra non erano le sue, il naso e i capelli neppure. Era tutto sbagliato.
Ma non ero mica Picasso io, non pretendevo di riuscire a rendere graficamente la sua bellezza Rock‘n’ Roll. Non ero certo all’altezza dell’icona più esplosiva del Novecento. C’è Pablo e Pablo.
Mi ero limitato a pasticciare una specie di cubo-fumetto in cui lo stereotipo dell’avanguardia si dibatteva nello spazio ristretto d’una carta da gioco. Un cubo-fumetto in cui il tema di Brigitte Bardot veniva ridotto a schegge. Quasi fosse un quadro di quelli che si vedevano appesi nella casa di Paperino. Caricature del cubismo e del futurismo. Declinazioni popolari e parodistiche delle sperimentazioni astratte.
Il mio piccolo rebus era qualcosa da ricostruire arbitrariamente e rimontare nella propria immaginazione. Una evocazione di forme e di colori base in chiave infantile. L’operazione sembrava essersi impantanata lì e non trovare una possibile via d’uscita quando la Bardot (mi baso sempre su quello che Fornasetti mi riportò) ebbe un’illuminazione: decise di contribuire all’opera stessa con un gesto altrettanto dissacratorio.
Decise di apporre su tutti gli esemplari una sua grossa firma. Ma non in calce, accanto alla mia. Volle firmare proprio sul disegno, al centro, nel bel mezzo. Una cosa che tra i writer è vietatissima: lasciare il proprio tag su un graffito altrui.
Il mega autografo di B.B. stava lì a testimoniare la volontà di sovrapporsi e cancellare virtualmente il mio pastrocchio e contemporaneamente appariva una forma di conferma, di vidimazione. Una sorta di marchio di fabbrica, il sigillo ufficiale del fan club.
Proprio come si fa su una foto promozionale. Comunque sia io l’ho sempre percepito come una medaglia, una onorificenza conquistata sul campo. Una decorazione, un arricchimento bio/grafico. E sempre più lo vedo come uno sberleffo che trasforma l’oggetto in un prodotto a quattro mani, un’opera moltiplicata e al tempo stesso un originale. Insomma ho subito capito che quella firma erano i suoi baffi alla mia comica Gioconda.