Domenicale, 22 settembre 2024
Luigino Bruni esplora, nel suo nuovo libro, il rapporto fra grande letteratura e meccanismi economici, da Verga a Shakespeare, da Camus a Collodi, fino ad arrivare ai lasciti della Bibbia
L’essenziale di una civiltà ci si rivela nell’incontro con la sua arte, quindi anche con la sua letteratura, che toglie il velo che lo avvolge, e ce lo mostra o, almeno, ce lo fa intravvedere. Anche lo spirito economico è tra gli spiriti svelati dagli scrittori. Se poi la letteratura è grande, trascende i limiti dello spirito del suo tempo e del suo spazio: il suo spirito è per sempre. Perché se è vero che gli economisti di professione non si sono interessati, se non marginalmente, di letteratura, la letteratura si è occupata molto di economia. Ha parlato di lavoro, di denaro, di ricchezza, di povertà, di banche; e lo ha fatto perché è molto difficile, forse impossibile, parlare della vita vera della gente senza parlare di tutto questo. L’economia è vita, quindi fa parte del primo materiale di ogni scrittore.
Nel Campo dei miracoli ho parlato certamente di Pinocchio, del suo rapporto (pessimo) col denaro, da cui nascono tutte le sue disavventure; e parlando dei soldi in Pinocchio ho parlato del rapporto tra i ragazzi e la moneta, delle paghette e degli incentivi domestici, dell’adolescenza e il lavoro. Il rapporto tra fanciulli ed economia è infatti una delle direttrici del libro, che da Pinocchio arriva alla moneta di Gervasino rubatagli da Jean Valjean ne I Miserabili di Victor Hugo; passando per le pagine economiche del libro Cuore di De Amicis, dove ho incontrato anche l’antica idea di merito, molto diversa dalla meritocrazia che sta invadendo la nostra economia e la nostra scuola.
Parole nuove sul lavoro e sulla condizione umana le ho trovate nel Sisifo di Camus, tra le più belle della letteratura del Novecento, poche pagine sulla felicità possibile dei molti Sisifo della terra. Fino a scoprire, alla fine, che Sisifo era mio padre, i miei nonni contadini, mia madre: che Sisifo ero io.
Che ci sia una buona gioia nella vita economica e nel lavoro non è stata colta da Dante, che è immenso per molte cose, non nella visione della nascente economia di mercato – non c’è nessun mercante nel suo Paradiso. La bellezza della virtù economica fu invece intuita da Boccaccio, che colse qualcosa di fondamentale e di veramente moderno, cioè che la fragilità dell’attività economica è proprio ciò che ne costituisce la sua nobiltà morale. Impegnarsi per cose effimere ma essenziali per il bene comune genera una grande bellezza etica, e lui l’intravide.
L’idea di ricchezza di Boccaccio non è quella di Mazzarò, il protagonista di La Roba, una delle migliori novelle di Verga. Lì troviamo una specie di profezia su cosa sarebbe diventato, più di un secolo dopo, il capitalismo. La nostra è infatti una intera civiltà della roba, quindi una civiltà usuraia, che consuma oggi il futuro dei giovani e dei bambini. Che di fronte alla morte scende con Mazzarò nell’aia ripete i suoi gesti e parole: «uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: “roba mia, vientene con me!”».
L’usura è al centro del Mercante di Venezia, un capolavoro che provo a raccontare da una prospettiva diversa, prendendo sul serio i brani biblici – su Giacobbe e Susanna – che Shakespeare inserisce in due punti decisivi della storia.
Infine, l’ultima parte del Campo dei miracoli è dedicata alla Bibbia come letteratura. La Bibbia contiene molte pagine di grande arte narrativa. Senza la Bibbia non avremmo il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi, il Vangelo secondo Marco di Borges, Giuseppe e i suoi fratelli di Mann, la Commedia e I promessi Sposi.
Sono molti i punti di contatto tra la letteratura biblica e la grande letteratura. Quando ci avviciniamo a un racconto biblico o a un romanzo, andiamo, spesso, in cerca di salvezza e di redenzione. Ma, in genere, pensiamo che le parole di salvezza e di redenzione siano quelle che iniziano con i pentimenti dopo i peccati, con le riconciliazioni dopo i tradimenti, con le benedizioni dopo le maledizioni.
La Bibbia e la grande letteratura ci propongono invece una strada opposta. Scoprono la felicità di Giobbe mentre si trova ancora sopra il suo mucchio di letame, la vittoria di Saul dentro il suo suicidio, la resurrezione nel grido del Golgota. Hugo riscatta Jean Valjean mentre lo raggiunge nella sua sventura, I.J. Singer salva la moglie di rab Abraham Hirsch Ashkenazi mentre ce ne descrive la misera vita.
La prima resurrezione operata dalla Bibbia e dalla letteratura è il loro farsi prossime dei crocifissi quando sono ancora in croce; avvicinarli, guardarli, «spargere olio e vino sulle ferite» delle vittime prima che si raggiunga l’albergo. Il primo buon samaritano della Bibbia è la Bibbia stessa. È lo sguardo di pietas dell’artista sulle vittime che fa rotolare la pietra pesante del sepolcro, raccontandocelo e facendocelo vedere, perché questi suoi occhi che si posano sono già sepolcro vuoto. È così che raggiungono e toccano anche le nostre ferite più profonde, quelle mai guarite, e le baciano – le ferite non guariscono con i baci, le madri lo sapevano bene, e continuano a farlo.
Se la Bibbia contenesse soltanto racconti di figli prodighi che tornano, di bambine che risorgono, di lebbrosi guariti che vengono a ringraziare, di schiavi liberati, sarebbe soltanto un’edificante raccolta di storie a lieto fine o un libro di racconti consolatori.
L’immenso valore antropologico e spirituale della Bbbia e della letteratura sta anche nella presenza di pagine sui figli persi e che non si salvano, quelle di Fantine e di Abele, di Giobbe e dei suoi fratelli e sorelle che continuano a urlare innocenti sopra le loro discariche fuori della città, ad attendere un dio diverso che non è ancora arrivato, che forse non arriverà, ma che continua a essere atteso e bramato come il «dio del non ancora» perché liberato dalle nostre illusioni – forse la più grande funzione della Bibbia e della letteratura, insieme, è proprio la liberazione dalle illusioni che noi continuiamo, tenaci, a ricreare ogni giorno pur di non disperarci.
Perché se la letteratura non ci risorge è solo un piccolo utensile per distrarci dal pensiero della morte, che non viene mai sconfitta. E sarebbe davvero troppo poco.