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 2024  settembre 22 Domenica calendario

Intervista a Claudio Fabi

Prima di qualunque talent, prima di qualunque filmato in rete; prima di ogni riflettore da tv commerciale, c’erano i professionisti dell’ascolto, quelli a caccia dell’essenza dell’artista, un’essenza a volte sconosciuta all’artista stesso.
Claudio Fabi è uno di loro.
Uno dei più bravi. Dei più attenti e riconosciuti, tanto da azzerare una delle massime di Bruno Voglino (altro talent scout, ma televisivo): “L’artista non è quasi mai riconoscente”.
A Fabi dicono grazie Alberto Fortis (“Claudio è stato fondamentale”), Adriano Pappalardo (“Fu lui a portarmi da Lucio Battisti”), Gianna Nannini, Ivan Graziani, altri e altri, fino ad arrivare a suo figlio Niccolò.
Oggi vive a Madrid, ha 84 anni, e lavora sempre con la musica.
Quando ha scoperto le sue doti da talent scout?
Arrivo in questo mondo da musicista: sono diplomato in pianoforte e in composizione e direzione d’orchestra, quindi con una preparazione estetica lontana dal mondo della canzone. Ed era la fine degli anni Sessanta…
Come mai il passaggio?
Per un’esigenza politica e sociale: avevo davanti a me una visione della musica più inserita nella realtà contemporanea, e quello era un momento di rivoluzione anche per quanto riguardava il gusto estetico e i movimenti sociali. Così decisi di provare.
Grazie a chi?
Entrai in RCA come assistente alla musica classica; poi piano piano ho seguito la mia indole più legata al rock progressivo tipo gli Yes.
In RCA c’era il meglio del cantautorato…
Mi trovai davanti a Venditti, De Gregori, Baglioni, Dalla e a volte Cocciante.
Un giovanissimo Renato Zero…
Una delizia di persona, l’ho conosciuto quando era solo un ragazzino e andava in giro insieme a Mimì (Mia Martini) e Loredana Bertè: vennero da me quando nessuno dei tre aveva un contratto; Renato è stato bravo a trovare uno spazio musicale solo suo, non esistono epigoni.
Tre fenomeni.
Eppure non lo avrei mai detto; la prima volta Renato era defilato, era solo l’amico della sorelle, mentre la più strutturata era Mimì, ma nonostante questo non era sicura del suo futuro artistico, si sentiva sperduta e senza idee chiare.
Lei era X-Factor
In qualche modo. Ma non solo io, anche gli altri colleghi…
Il primo che ha portato?
Credo Ivan Graziani: lo incontrai all’università di Urbino mentre era impegnato in alcuni piccoli concerti insieme al suo gruppo del tempo; (cambia tono) pensare che ancora non ero passato alla musica contemporanea, ero solo un assistente, ma lo ascoltai e decisi di presentarlo in azienda.
Folgorato.
Dal suo rock melodico, anzi rock del cuore e con quella vocetta, quel canto lirico…
Con il lirico torniamo alla classica.
Ripeto: quella è la mia matrice; stessa situazione con Alberto Fortis: i falsetti sono tipici della loro musica, per me una forza incredibile, nonostante tutti quanti ci ridessero sopra.
Il falsetto generava battute…
Alcuni li inquadravano come omosessuali, e poi le vocine non appartenevano al mondo pop-rock di quel periodo; (sorride) negli ultimi anni anche Niccolò (Fabi) lo ha utilizzato.
Niccolò, suo figlio.
Spesso veniva in giro con me, ha vissuto anni al fianco di Alberto (Fortis) e qualcosa oggi li accomuna.
Non la scrittura.
Assolutamente differente: (serissimo) Alberto ha dimostrato una grande forza di resistenza, artisticamente è riuscito a superare alcuni momenti molto bassi, di penombra, ma è stato bravo a reagire.
Colpa di chi?
In parte è fisiologico, in parte Alberto non ha sempre offerto brani comprensibili come quelli del suo primo periodo.
Fortis, sul Fatto, le ha riconosciuto grandi meriti.
Con lui siamo diventati amici, ed è uno di quei casi in cui artista e produttore vanno avanti di pari passo; e poi è una persona perbene.
Ha scoperto Pappalardo, distante da Fortis e Graziani.
Nella mia formazione da produttore, ho capito il modo di percepire cosa c’è, cosa non c’è, cosa può fare link tra l’artista che comunica e chi riceve; soprattutto ho imparato dagli statunitensi ad ascoltare l’anima più della voce o dello stile di canto.
Come?
Bisogna andare oltre la pelle, oltre l’estetica con cui si presenta un artista, perché magari in quel momento ne sta copiando un altro, oppure è un istintivo tremendo. Bisogna arrivare alla parte embrionale e cercare di intuire come svilupparla; per capirlo basta anche una semplice postura fisica da proiettare sulla sua capacità di comunicazione.
Radiografie.
Per me all’inizio non fu semplice, con la classica ero abituato a vedere tutto scritto, gli artisti impostati; era come leggere un libro scritto da Cechov; invece dovevo affrontare proposte nuove senza paragonarle a Cechov.
E Pappalardo?
Nonostante copiasse James Brown, aveva un cuore forte, rozzo ma interessante e una mole psicofisica che in qualche modo mi ricordava l’anima di Lucio Battisti; (sorride) infatti quando portai Adriano alla Numero Uno, l’unico che mi disse “cazzo, è forte” è stato Lucio.
Divennero amici.
Andarono subito d’accordo e Lucio per lui è stato fondamentale, tanto da offrirgli pezzi chiave, con i quali è campato per anni.
Ogni artista affronta alti e bassi sbalestranti.
Il processo creativo procede di pari passo con quello umano, esistenziale, culturale; è legato al rapporto con la società. E spesso nella ricerca della propria strada, l’artista si consiglia, va di qua, va di là, ed è comune trovarsi in basso per via della confusione. Quindi si cade nelle insicurezze o nella depressione, ma è normale, quando si è imprenditori di se stessi.
Succede a tutti.
Ricordo Gianni Togni, bravissimo musicista, e anche lui ha passato un periodo buio: da uomo intelligente, pure troppo, razionalizzava dopo aver ascoltato tutti e ha impiegato anni per trovare la sua corretta direzione.
L’RCA di allora era una specie di factory.
Il segreto è stato quello di creare un contenitore dove inserire ogni sfumatura artistica, farlo girare come una trottola, mettere insieme i protagonisti, spingerli, provocarli e offrirgli la possibilità di creare senza questioni legate ai soldi; poi Melis (grande patron della RCA) creò uno spazio detto “Il Cenacolo” in cui i vari cantanti andavano per farsi ascoltare da un pubblico piccolo, di appassionati, pieno di produttori. Melis stava lì come una bella aquila, mentre noi, suoi soldati, cercavamo di intuire il talento.
Chiunque ci ha suonato…
Il richiamo era “famme sentì” e poi si passava al “tu che ne pensi?”. E se ne discuteva, ci confrontavamo all’infinito.
Palco da brividi.
Uno come Alberto Fortis per un anno è rimasto nella fase “famme sentì”: arrivava, suonava, e poi non accadeva nulla.
Anche per Dalla ci sono voluti anni.
Veniva considerato brutto e peloso, ma aveva una grandissima personalità; era sanguigno ed è stato difficile far uscire il suo stile.
Cioè?
Era reattivo nei confronti di certe dinamiche, anche rispetto allo stesso “Cenacolo”: temeva di perdere tempo, era impaziente, poi ha capito come affrontare sangue e poesia.
Sangue e poesia sono perfetti pure per Gianna Nannini. Lei, Fabi, è nella serie dedicata alla musicista…
(Sospiro) L’ho vista, una stupidata, e sono stupito da Gianna: mi è sembrato di vedere una serie tratta da una rivista come Grand Hotel.
Perché?
Per chi come me ha amato Gianna nella sua versione naturale, quella roba non c’entra nulla.
Com’era in versione “nature”?
Naïf, volgarona, senza tempo musicale, stonata però alla ricerca disperata di come posizionare la sua voce; e poi lottava contro la famiglia, molto borghese, che non voleva perdesse tempo; ebbi a che fare con il padre e per mesi ho cercato di convincerlo a lasciarle spazio per trovare la giusta strada.
E…?
Anche con Gianna servirono gli insegnamenti statunitensi; mi sembrava che avesse carattere, cuore, pancia, niente filtri, ed erotismo, anche se da subito ci tenne a chiarire un aspetto: “Sono attratta dalle donne”. E questo aspetto per alcuni era negativo.
L’erotismo è centrale…
Fa parte della vita, sono pochi gli artisti non erotici.
Uno?
(Ci pensa a lungo) Simone Cristicchi, mentre Ornella Vanoni lo è pure a novant’anni.
Vede i talent?
Da qualche anno no; alla fine chi esce da lì entra nel mondo mainstream.
Quando ha capito le qualità di suo figlio?
A sedici anni; un pomeriggio, a Roma, in un teatro vicino alla Rai, organizzavano i saggi dei liceali; quel pomeriggio Niccolò sale sul palco e si esibisce con una cover di James Taylor. Lo ascolto. Resto in silenzio. Mi commuovo. Poi mi rivolgo a sua madre: “Secondo me diventerà un grande”. E la madre: “Oddio, spero di no!”.
Il primo consiglio dato a suo figlio?
A diciott’anni credeva di non iscriversi all’università, quindi lo presi con me per un intero weekend e gli spiegai che lo studio sarebbe stato fondamentale per la scrittura dei suoi testi; poi anche gli amici diedero un contributo fondamentale tanto da iscriversi a Lettere.
A 84 anni può ritenersi soddisfatto dalla sua carriera.
Se rinascessi preferirei restare pianista e direttore d’orchestra: sono sempre legato a quella realtà, al fraseggio largo, alla musica per esteso; (pausa) per me la transizione degli anni Settanta è stata una trappola, sono stato distratto da quel movimento giovanile internazionale.
Si occupava direttamente di politica?
No, solo come partecipazione dell’artista a quel movimento culturale, ma ho sempre evitato le derive radicali come Lotta Continua.
Lei chi è?
(Ride, poi sospira) Uno che ama la musica come espressione dei sentimenti; sono un soldato che continua a impegnarsi per quel che può.