il Giornale, 22 settembre 2024
Scanziani, in direzione ostinata e contraria al proprio tempo
Tra l’altro, si occupò di cani. Scrisse decine di trattati di cinologia, dedicandosi, soprattutto, al mastino napoletano; ne ricostruì il lignaggio, riconducibile all’antico molosso, la bestia sfoggiata in battaglia dagli Assiri e dai Romani, abile nell’assalto, letale nel morso. Alla stessa indole appartiene l’opera di Piero Scanziani (1908-2003), scrittore di Chiasso di insuperabile esuberanza, spiazzante. Appena tenti di arginarlo nel recinto dei grandi «minori» del secolo scorso cito a mio gusto: Davide Coccioli, Giorgio Saviane, Enrico Emanuelli ecco che Scanziani si scansa, dà di denti, eccede per indole individualista.
Da qualche anno, Utopia Editore va ripubblicando i libri di Scanziani, altrimenti introvabili. In ostilità alle malie editoriali del tempo, Scanziani aveva varato un marchio, Elvetica, con cui editare i propri libri. Preferiva la levità dell’autarchia alla vanagloria dei baciapile. Ne dicono come di un uomo fermo, generoso, dal sorriso augusteo. I libri più belli tra tutti, preferisco Entronauti, l’estenuata ricerca, tra Stati Uniti e India, Persia e Giappone, dei maestri spirituali, uomini allattati dall’ignoto: testo, per altro, di alta classe «giornalistica» sono così tornati nel nostro canone, in foggia sgargiante. Certo, Scanziani non è lettura facile: proviene, per prossimità, dalla grande narrativa Mitteleuropea, propensa all’indagine, alla spasmodica speculazione narrativa. Non è un caso che Libro bianco sconcertante processo romanzesco all’essere umano, uscito in origine nel 1968, poi Utopia abbia trovato un lettore fraterno in Mircea Eliade più che negli «addetti ai lavori», merciai mercenari. Il grande storico delle religioni scrisse di Libro bianco nei suoi diari: «Il testo mi conquista subito e leggo, rapito, per alcune ore. La gioia di scoprire, alla mia età, un nuovo scrittore». Era il 1984, e seguì un breve scambio epistolare con l’autore. Il «nuovo scrittore» aveva 76 anni; durante la Seconda guerra aveva ospitato, a Berna, il fuoriuscito Indro Montanelli, il quale, anni più tardi, giocava a canzonarlo. A dire di Montanelli, Scanziani avrebbe dovuto assurgere ai più alti gradi del giornalismo e della letteratura italiane. Coriaceo per non dire molosso Scanziani non era tipo da chiedere aiuti o pretendere ruoli militava in una sorta di granitica gratitudine.
Nel 1996 Scanziani esce con l’ultimo romanzo, Il fiume dalla foce alla fonte (che ora torna da Utopia, pagg. 25, euro 18): È, di fatto, l’autobiografia di Scanziani scritta in terza persona, sotto mentite spoglie (quelle di Pablo, già protagonista di Libro bianco). Il libro sorprende per estro e maneggevolezza retorica: si legge meglio, si attraversa d’un sorso. Le frasi, spesso apodittiche, spinate («Ed era giusto: le sue amanti non potevano restare per sempre fedeli alla sua infedeltà. Ed era giusto che la sottrazione dei suoi piaceri aumentasse la somma delle sue pene»), svasano un percorso dantesco: dalla carne all’eterno, dall’ambizione all’adorazione, dal Dio «Seduttore» al Dio seducente, da stanare. Tra i tanti lari che puntellano il romanzo ne scelgo due: Sri Aurobindo, il mistico e poeta indiano (autore di «Savitri, poema epico di ventitremila versi giambici, fra i massimi capolavori del secolo») su cui Scanziani ha scritto un’avvincente biografia, e Ezra Pound, «gigante della poesia che fu dai politici connazionali incarcerato, condannato, vilipeso, annichilito in un manicomio».
Naturalmente, si parte dal disordine mondano per giungere alla scoperta dell’amore assoluto, del gemellaggio tra anime affini. Dietro la «Chiara» a cui è dedicato il libro, si cela Gaia Grimani, ovvero Magì (ovvero: Maria Giuseppina), devota compagna di Scanziani. È grazie a lei, donna di bronzea grazia, se l’opera di Scanziani, nonostante traduzioni internazionali e premi (il più importante, lo Schiller per l’opera omnia), non è finita nell’oblio, come avrebbero voluto invidiosi e detrattori: il 12 ottobre, al LAC di Lugano, a poco più di vent’anni dalla morte (febbraio 2003), sarà ospitata una giornata di studi su «Piero Scanziani il cantastorie», alla presenza, tra gli altri, di Vincenzo Guarracino, Flavio Medici, Andrea Mascetti e Gerardo Masuccio.
In contrasto ai cliché contemporanei, i libri di Scanziani non dilettano educano. Non propongono vivaddio una riflessione sociale sui drammi del mondo: impongono un’ascesa. Non saranno ridotti vivaddio in una serie Netflix. Sul finire de Il fiume dalla foce alla fonte, il protagonista implora Macario, monaco dell’Athos: «Liberami, l’ego mi sembra un’edera malvagia che m’avvolga dalle radici alla cima, mi sugga ogni linfa, m’invada, mi strangoli. L’ego mi odia».
I paragrafi di Scanziani sono privi di bave utopistiche, non sono il regesto di un fanatico, la visione di un infervorato. Al contrario, hanno la severa compostezza del molosso. Libri che non demordono, li diremmo, che conoscono la lotta e l’impero del perdono. Insegnano a riconoscere «l’infinito nell’istante». In questo è la loro anomala cavalleria, la virilità di chi è buono.