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 2024  settembre 22 Domenica calendario

Biografia di Marco Tardelli. Compie 70 anni

Myrta: «La verità è che sei terrorizzato da questo numerone…».
Marco: «Non sono affatto terrorizzato! È che questi 70 arrivano quando mi sentivo ancora un adolescente. Hai presente quando vuoi solo vivere, amare?».
Myrta: «Va beh, allora potremmo festeggiarlo come un diciottesimo».
Marco: «Io non voglio feste, grazie».
Marco Tardelli, nato sotto il segno della Bilancia come Bearzot e Paolo Rossi, come Gentile e Cabrini, ha 70 anni. Una di quelle notizie che fanno sentire vecchi noi – quante volte abbiamo guardato l’urlo Mundial come fosse un Munch? – e ringiovanito lui: sulla sua terrazza vista Quirinale-Chigi-Vittoriano, sta ch’è un fiore. E messo alle strette da Myrta Merlino, la sua compagna di vita, l’ammette: «Sì, ci sono arrivato bene. Nel calcio cresci con addosso la data di scadenza. Io invece mi sono concesso molte altre date. E le ultime, praticamente da ragazzino: mi sono reinventato un futuro, ho traslocato a Roma, cambiato tutto. Per fortuna, i miei 70 anni sono diversi da quelli di mio padre. Che ci arrivò esausto».
Dice Myrta che coltivi il mito della fuga, ti vedi contadino sulle orme d’Orazio.
«Un pezzo di terra, un orto, una fonte d’acqua... Erano i versi preferiti di Bearzot. Quando li recitava, io mi commuovevo. A Pantelleria ci starei sei mesi l’anno, è il rifugio perfetto per me e per Myrta. Ho piantato gli ulivi, due hanno il nome dei miei genitori. Il prossimo, lo chiamo Enzo».
È vero che i tuoi volevano una femmina?
«Ci speravano. Avevo già tre fratelli, una sorellina era morta da piccola. E noi maschi, per la disperazione di mia madre, giocavamo tutti. Flavio bravissimo, ma svogliato. Tullio tosto, un Gattuso. Danilo il più forte, un Beccalossi: doveva andare al Torino. Io ho fatto il calciatore perché non ho mai mollato. A scoprirmi al San Martino fu l’allenatore, Romano Paffi. C’era il Pisa che chiedeva due suoi calciatori. Me, non mi volevano perché ero un seghino. Ma lui li obbligò: se volete quei due, prendete anche Tardelli. E se poi non va bene, me lo ridate. Gli altri due tornarono indietro, io no».
Giocavi e lavoravi…
«D’estate facevo il cameriere all’hotel Duomo. Un bulletto: portavo sei piatti tutt’insieme e mi cadevano, poi scappavo per vedere Gigi Riva che in tv giocava a Messico ’70… Meno male c’erano i miei fratelli, a coprirmi. Ogni tanto ci chiamavano al Ciocco a servire e noi correvamo: pagavano cento volte meglio. Servii anche Zoff, che era in ritiro col Napoli. Quando arrivai alla Juve, glielo dissi: “Lo sa – gli davo del lei – che io la servivo al ristorante?”. Eravamo in sala da pranzo. E lui, ad alta voce: “Oh, ragazzi, questo qui era il mio cameriere!”. Incredibile, la vita: prima ti porto il piatto al tavolo, poi alziamo insieme la coppa del mondo».
Chi ti chiama ancora Schizzo?
«Nessuno. Mi diede quel soprannome Spinosi. Bearzot invece mi chiamava Coyote, perché non dormivo mai, come lui. Mi veniva a prendere nelle camere, di notte, dove tenevo svegli tutti: dai, coyote, vieni a dormire…».
L’ultima volta che hai giocato?
«Quando ho smesso. Dopo, non m’è più piaciuto. Mi son buttato su cose che non immaginavo e Myrta m’ha trascinato, m’ha dato coraggio: ho fatto il conduttore tv, scrivo per un giornale. Ho imparato. D’altra parte, alla Domenica Sportiva, avevo un grande maestro: Tito Stagno».
Tu che hai sempre detestato i giornalisti…
«Non è vero. Uno come Giovanni Arpino, che aveva scritto “La suora giovane”, beh, lui lo veneravo. Non mi piacevano quelli che offendevano, s’inventavano le dichiarazioni. Non era come adesso, che i calciatori hanno il social media manager. Allora, i giornalisti t’entravano fin nello spogliatoio. Non so se fosse meglio: certo, c’era più empatia. Anche se io, al contrario di altri, mi davo la regola di non andarci nemmeno a cena. Non volevo favoritismi».
Ci furono liti memorabili.
«In Spagna, ci attaccavano pesanti. “L’armata Brancazot”, “cortocircuito cerebrale”, Matarrese che voleva prenderci a calci nel sedere… Gianni Brera scrisse che io non dovevo esserci. Lo vidi al bar del ritiro, stavo prendendo un caffè e dissi: usciamo, c’è puzza di m… Una cretinata. Non riuscii mai a scusarmi con lui, ma lo feci col figlio. E Matarrese oggi m’è simpaticissimo».
Che nemesi: hai un figlio da una giornalista, Stella Pende, stai con una giornalista, tua figlia Sara è giornalista e tu fai il giornalista…
«E pensare che da ragazzo ero timido, mi bloccavo davanti a un microfono. Non scrivevo neanche le cartoline. Ho scoperto che mi piace».
Tanti incontri.
«Il bello della mia vita. Boniperti forse è stato il più importante. Un papà col quale litigavo, sapeva essere duro e generoso. Come arrivai alla Juve, mi levò braccialetti e collanine, m’obbligò a tagliarmi i capelli. Poi un giorno, mentre firmavo autografi, gli chiesi la penna in prestito. Mi passò la Cartier d’oro e mi disse: tienila, te la regalo. Era uno che non ti faceva mai sentire solo. Come Agnelli, del resto».
L’Avvocato stravedeva, per Tardelli.
«Nonostante le mie gaffe. Una volta m’ero fatto male e lui mi chiamò: le mando il mio massaggiatore, vedrà che bravo… Venne questo massaggiatore. E mi stirai di nuovo. Allora mi ritelefonò: come va? E io: mah, quasi quasi me la taglio, questa gamba… “A me lo dice, Tardelli?”. M’ero dimenticato che era zoppo».
Con gli Agnelli di oggi?
«Non ho lo stesso rapporto. È una generazione diversa».
Dalla Juve, non hai mai divorziato bene…
«Nell’ultima Juve, volevano m’occupassi di cose che non conoscevo: bilanci, numeri… Da giocatore, me ne andai perché Boniperti mi vedeva terzino e io invece non mi ci trovavo. Mi cercò la Roma, feci un pranzo con Dino Viola ed Eriksson. Tutti d’accordo, mancava solo la firma. Il mio mondo è sempre stato quello della mano, di come si compravano le vacche una volta, e allora dissi: presidente, ok, anche senza contratto stringiamoci la mano. E lui: ma certo! Alzandosi, però, finse una sciatica: “Aaah, che dolore…!”. E non me la strinse: c’era stata l’offerta dell’Inter, il prezzo era cresciuto, e lui non voleva spendere di più. Era simpaticissimo, Viola».
Trapattoni?
«Non lo sento tanto spesso, e mi spiace. A fare gli allenatori dell’Irlanda, ci siamo divertiti. Gl’irlandesi sono simili a noi. Anche se qualche giocatore beve un po’ troppo».
Romiti?
«È stato uno degl’incontri più belli. A Torino, mi ha aiutato molto, è stato la mia roccia fino alla fine».
Anni difficili...
«Non è stato tutto rose e fiori. Dalla mia prima moglie nacque un bambino, Benjamin. Ma morì nell’incubatrice. Fu dura, soprattutto per lei. Per fortuna c’era Sara, che ci ha letteralmente salvati».
(Squilla il telefono: è Sara).
Ti sta molto vicina…
«I miei figli mi massacrano! E io lo stesso: Sara ha due gemelli bellissimi, le dico sempre che li vizia un po’».
E Nicola?
«Lavora seriamente, si fa ben volere da tutti. È una cosa importante. Non è rimasto nel calcio – sentiva la sfida, chi lo sa –, ma forse meglio così: noi non siamo i Mazzola o i Maldini. A volte lo sfotto, gli dico che ha avuto in dono i piedi della mamma e la testa del papà: mamma mia, come s’incazza!».
Anche tu sei permaloso.
«Sono un toscano. Zoff, Furino, Morini mi prendevano in giro e io m’arrabbiavo, poi mi telefonavano e mi dicevano: ma cosa sei, un bambino? M’insegnavano a vivere e ho imparato. Il giovane cresce se lo fa crescere il vecchio. Altrimenti, il vecchio può farti anche molto male».
Il talento più sprecato?
«Vincenzo D’Amico, uno dei più forti che ci siano stati in Italia. E Cassano: poteva essere un fenomeno mondiale. I sopravvalutati invece sono tanti, ma niente nomi».
Non sei come Pietrangeli che rosica su Sinner…
«Ma noi dobbiamo essere sempre felici, se lo sport italiano vince. Ogni grande, è stato grande nel suo tempo. Ho quasi litigato con Mentana e Malagò, una sera, che mi dicevano: tu nel calcio d’oggi non ci potresti giocare… I paragoni Maradona-Pelé non hanno senso».
Maradona e Pelé si sono confrontati per una vita...
«Non si sopportavano. Alla festa d’addio di Platini, avevamo fatto un pullman di vecchie glorie. A un semaforo, ci affianca una limousine: sopra c’è Maradona, che ci saluta. Allora Pelé fa fermare e dice: o sale sul pullman anche lui, o io non vengo. Platini scende e negozia. Alla fine, Maradona viene con noi e s’avvicina a Pelé: ma dai, perché fai così… Diego era un genio, circondato da gente strana. Prima che arrivasse in Italia, un dirigente Fiat l’aveva segnalato all’Avvocato. Certo, se Boniperti avesse dato retta all’Avvocato e l’avesse preso, chissà...».
Ma è vero che scioperasti contro Platini?
«Ma no. Semplicemente andai da Boniperti con Scirea, Gentile e Rossi a domandare perché Platini guadagnasse più di noi, che eravamo campioni del mondo».
Sei di sinistra?
«Da sempre. Il Pd mi chiese di candidarmi, ma non è il mio mondo. Secoli fa, me lo chiese anche il Msi: non sapevano come la pensavo».
Che ricordo hai di Totò Schillaci?
«Ci somigliavamo nell’attaccamento alla maglia azzurra, prima che a quella del club. Per noi la Nazionale era il massimo. Oggi, non è così».
Non sei stufo dell’urlo?
«Mi stufo quando mi chiedono di rifarlo».
E di quel famoso 8 in amore che ti diede Moana Pozzi?
«Fu una storia brevissima. Lei simpatica, intelligente. Lasciamo perdere il voto… Anche se era un 8 e mezzo, tanto per la precisione!».
Quel libro, Moana lo scrisse con Stella Pende…
«Stella e io abbiamo un rapporto così. Ci mandiamo a quel paese dieci volte al giorno, ma ci siamo sempre l’uno per l’altra».
Mai avuto paura, quando lei andava in guerra?
«Con lei, c’è ironia. Una volta tornò dall’Afghanistan e mi disse: sai che i talebani m’hanno arrestato? E io: accidenti, e perché mai t’hanno rilasciato? Siamo due rompiballe».
L’ultimo amore?
«Myrta non è una tipa semplice. È tosta. Ci siamo presi una bella responsabilità. Un amore tardivo. Ci ha travolto come due diciottenni, ci ha sorpresi col batticuore e le passeggiate mano nella mano. Tutti ricordano sempre il primo amore: è l’ultimo, quello che ti cambia la vita».
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