Robinson, 22 settembre 2024
Intervista a Emanuela Bassetti
Tra i circa cinquantamila abitanti della citta lagunare – quel che resta dei veneziani – Emanuela Bassetti si sente un po’ un’eccezione.
Sarà perché è nata a Milano, sarà per i compiti che ancora svolge alla Marsilio e di conseguenza a Venezia o magari per l’obliqua autorevolezza che il suo parlare spesso sommesso le conferisce, sta di fatto che da lei non uscirà un lamento sulla città che muore, l’assedio turistico, le brutture che fatalmente ne sfregiano l’incantevole volto. Non perché quelle cose non le pensi, ma perché per una donna pragmatica qual è sarebbero scontate e ribadirle suonerebbe retorico. Ecco la prima cosa che mi colpisce: Emanuela è una donna del fare. Va dritta al punto delle cose. Vive in una bella casa nella zona di Dorsoduro. Non quei palazzi pieni di affreschi e carichi di storia e di stucchi, ma in un’abitazione che sembra ai miei occhi la massima espressione dello snobismo: apparentemente alla buona, un fiore di campagna sorto nella penombra della laguna.
Vedo parecchi scaffali di libreria vuoti: «Sto trasferendo parte dei 60 mila volumi appartenuti a Cesare», mi dice.
Cesare De Michelis è morto nel 2018 e ha voluto che il fondo dei suoi libri finisse all’università di Padova: «li sostituiremo con l’archivio della Marsilio». Mai lasciare un vuoto. È sbrigativa Emanuela e in un certo senso imprevedibile.
Vieni da una famiglia di imprenditoria lombarda: i Bassetti. A che ramo appartieni?
«Vengo da una storia strana. Piero Bassetti era mio zio, quello che ha fatto il presidente della regione, il mio papà era Gian Sandro che si occupava dell’azienda. Una famiglia fascista durante il ventennio, democratica nel Dopoguerra. Cattolica con una punta di calvinismo.
Come dire? Le cose bisogna meritarsele».
Perché una storia strana?
«Sono sempre stata la figlia ribelle. Nel 1968 entrai in conflitto con i miei. Lasciai l’infanzia felice alle spalle.
Via da casa, mi iscrissi a Filosofia. Non chiesi soldi ai miei. Mentre studiavo seppi di una comunità valdese che operava a Cinisello Balsamo. Lì conobbi Giorgio Bouchard. Un personaggio straordinario che aveva fondato la scuola popolare Lombardini, in omaggio a Jacopo Lombardini, partigiano e valdese catturato e portato a Mauthausen, dove sarebbe morto il 25 aprile del 1945. La scuola funzionava per ragazzi e adulti che non erano riusciti a finire quella dell’obbligo. Venivano anche gli operai per il corso sulle 150 ore. Insomma fu una gran bella esperienza».
E l’università?
«Nel bel mezzo degli studi lavorai per un periodo in un asilo nido per ragazze madri. Mi piaceva la pedagogia. Chiesi la tesi a un’insegnante che ha un po’ fatto la storia della pedagogia italiana: Egle Becchi. Mi laureai con una tesi sull’immagine dell’infanzia percepita dalle diverse classi sociali. Becchi voleva che restassi all’università. Ero tentata. Ma quei pochi soldi che mi venivano garantiti non bastavano per mantenermi. E non intendevo chiederli alla famiglia».
Sei una donna orgogliosa.
«L’orgoglio non mi è mai sembrato un difetto, ma occorrono anche intelligenza e fortuna. La mia fortuna fu di incontrare Rosellina Archinto. Aveva una piccola casa editrice, in società con Electa, cercava una persona che potesse aiutarla per la collana di pedagogia che aveva varato. Non sapevo quasi nulla di libri ma ero interessata al comportamento dei bambini. Fu un buon incastro. Rosellina mi fece da nave scuola».
Apprendesti il mestiere.
«Anche grazie a Giorgio Fantoni e Vitta Zelman che erano a capo dell’Electa. A metà degli anni Settanta mi trasferii a Firenze. L’editore Mario Guaraldi mi propose di seguire una collana dedicata ai diritti dei bambini. Fu in redazione che un giorno conobbi Cesare De Michelis».
In che circostanza?
«Cesare, a capo della Marsilio, era a Firenze per discutere con Guaraldi la possibilità di fondere le due case editrici. Meno costi, più idee. Ma il progetto di fusione non funzionò. Quel matrimonio tra poveri neppure celebrato entrò subito in crisi. De Michelis tornò a Venezia e mi propose di lavorare nella sua casa editrice».
Eri molto richiesta. Ti faceva la corte?
«Ci si guardava con qualche curiosità. Ma vedevo soprattutto le complicazioni. Era un uomo incasinatissimo. Lasciato dalla moglie, gli era stato affidato il figlio, Luca, che però viveva a Milano con i nonni. Un padre single con un bambino. Non era il massimo. Ma al tempo stesso era divertente, colto, intellettualmente spregiudicato. Cercava sempre di guardare il mondo non dal centro della scena ma dai margini. Era la persona meno ideologica che conoscessi. E questo mi piaceva molto».
Sapevi che la famiglia De Michelis era tra le più importanti di Venezia?
«L’ho imparato a mie spese».
Nel senso?
«All’inizio della nostra relazione fui considerata una specie di parvenue, un’arrampicatrice sociale, intrufolata nel bel mondo veneziano. Viste le mie origini, potrei dire che era vero il contrario. Quella di Cesare era una famiglia particolare. Cinque fratelli, un nonno pastore metodista, il padre ingegnere, dirigente a Marghera; la mamma, la giovane sartina friulana venuta a Venezia per studiare».
Mi incuriosisce il nonno metodista.
«Si chiamava Cesare. Era spezzino, massone e anticattolico. Nel casellario della polizia fascista fu segnalato come “evangelico e antifascista”. Lasciò La Spezia per Milano, dove predicava facendo proseliti nei quartieri operai. Proseguì la sua missione di pastore a Vicenza, infine a Venezia. Per i De Michelis il nonno Cesare è stata una figura di riferimento».
Dicevi cinque fratelli.
«Un gruppo numeroso: Gianni il più grande, poi a seguire Cesare, Giorgio, Marco e Maria Ida».
Tutti di sinistra.
«Alcuni di estrema sinistra. Non Gianni e Cesare che furono socialisti e all’inizio lombardiani».
Gianni, leggo dal ritratto che gli dedica Paolo Franchi (L’irregolare, edito da Marsilio) è soprannominato “El paron”, Cesare viene chiamato “Ciccio”. Sembra una commedia goldoniana.
«Gianni era il primogenito: brillante e ambizioso. “El paron” restituiva l’idea di uno destinato al ruolo di primo attore. Quanto a Cesare, in famiglia è restato sempre “Ciccio” anche quando si sottopose a una feroce dieta dimagrante».
I due fratelli, così diversi, fondano la Marsilio.
«In realtà la casa editrice nasce a Padova nel 1961, da quattro ragazzi veneti appena laureati. Tra loro c’è Toni Negri. Solo alla fine del 1964, quando Toni era già uscito, Gianni e Cesare rilevarono la casa editrice, conservando il taglio saggistico ma aprendo alla narrativa. A un certo punto Gianni abbandonò l’impegno diretto e nel 1969 la guida editoriale passò a Cesare».
Il nome Marsilio come è nato?
«Marsilio da Padova fu il primo intellettuale a sostenere la separazione del potere politico da quello religioso.
Quindi una casa editrice laica in una zona “bianca”, cioè a forte tradizione democristiana».
A proposito di potere politico, si è detto che la Marsilio è stata il feudo culturale dei socialisti.
«Un giudizio ingeneroso dal quale abbiamo faticosamente cercato di liberarci».
Non era un mistero che negli anni Ottanta Gianni De Michelis fosse tra i politici più potenti in circolazione.
«Lo so, ma so anche che Cesare ha combattuto tutta la vita per affermare una linea culturale dove convivessero il richiamo ai classici (si era laureato con Vittore Branca), l’attenzione ai temi veneti, e in particolare a quelli veneziani, e la cura per un riformismo politicamente sostenibile. Purtroppo, il momento peggiore per la casa editrice venne con Tangentopoli».
Cosa accadde?
«L’accostamento al partito socialista non giovò alla casa editrice. Agli occhi della gente diventammo degli untori. Si diceva che eravamo il riflesso di un potere corrotto. Le insinuazioni erano più forti di ogni verità gridata. Non avevamo nulla da nascondere, ma Tangentopoli ci privò della forza e dell’entusiasmo. Cesare voleva mollare la casa editrice».
Avevate perso credibilità.
«E questo comportò una profonda crisi economica».
Come la superaste?
«Consultammo i nostri soci. Bisognava prendere una decisione rapida. Scegliemmo di resistere. Cesare si sarebbe occupato dei libri, io dei conti. Lanciammo una campagna per un prestito obbligazionario di 50 milioni, rivolta a nuovi soci. Aderirono, tra gli altri, mio zio Aldo Bassetti, Carlo Caracciolo, Massimo Cacciari e diversi imprenditori veneti. Capimmo a quel punto di essere ancora credibili».
Ma quel capitale non era sufficiente.
«Però pose le basi per arrivare a un accordo con la Rizzoli. E riconosco che fu un matrimonio felice.
Grazie anche alla disponibilità di Giulio Lattanzi, allora direttore generale».
Un matrimonio che a un certo punto finì.
«Quando Rizzoli fu inglobata nella Mondadori, l’antitrust pose un problema di concentrazione. Il gruppo doveva liberarsi di alcune quote di mercato. Cedette Marsilio e Bompiani che ripresero così la loro autonomia. Tutto questo accadeva nel 2016. Nel 2017 siamo entrati in un’alleanza strategica con Feltrinelli, che sta dando ottimi frutti».
Che ruolo svolgi attualmente?
«Sono vicepresidente. Ho ceduto la presidenza a Luca De Michelis, conservando un ruolo esecutivo per il settore che si occupa di arte».
Citavi l’accordo con Feltrinelli del 2017. L’anno dopo muore Cesare De Michelis. Che storia è stata la vostra?
«Di grande intesa professionale e sentimentale. Ci siamo sposati nel 1982. Lui aveva già Luca e prima del matrimonio abbiamo avuto nostra figlia Giulia. Poi nel 1987 Cesare si ammalò di cancro ai polmoni. Gli diedero tre mesi di vita».
Come viveste quel momento?
«La situazione era drammatica. Che fare di fronte a una sentenza così infausta? Mi sembrava che tutto il mio pragmatismo servisse a poco. Mi stupì Cesare.
Cominciò a considerare la malattia parte integrante della sua vita. Mi disse: guarda che il corpo umano è una macchina, anche se malandata si può riparare.
L’importante è la testa, perché è questa che lo guida».
Voleva farcela.
«Infatti si sottopose a una chemioterapia e a una radio molto aggressive. Si salvò, ma fu un successo parziale. In seguito il cancro lo aggredì al sistema linfatico, poi di nuovo ai polmoni. Nonostante fosse sfinito continuava a lavorare. Odiava essere considerato un malato. Purtroppo l’ultimo anno della sua vita lo ha passato costantemente con l’ossigeno. Eravamo in vacanza a Cortina quando è morto. Avevamo una decina di persone a cena. Discussioni infinite. Tra impegno e cazzeggio. Poi andammo a dormire, e lui mi disse: temo di essere molto stanco, scusami. Morì la notte di San Lorenzo, tra il 9 e 10 agosto. In fondo fu quella la sua stella cadente».
Poco prima che morisse gli avevano chiesto che cosa considerava davvero importante nella sua vita.
«Furono quattro le cose che indicò: la casa editrice, la famiglia, l’insegnamento universitario e la sua biblioteca. Era ossessionato dai libri. Gianni, il fratello, gli diceva: avrai pure letto migliaia di libri, ma non hai mai capito niente».
Litigavano spesso?
«Abbastanza, ma il legame tra loro era fortissimo. Si sentivano in continuazione. Si volevano bene. Nella diversità condivisero il grande amore per Venezia».
Gianni morì quasi un anno dopo di Cesare.
«Nel maggio del 2019. Era da tempo ammalato di una grave forma di Parkinson che gli tolse tra l’altro l’uso della parola. Fu un calvario che lo costrinse all’isolamento. Mentre Cesare, in qualche modo come disse Gian Arturo Ferrari, era riuscito a chiudere felicemente il cerchio».
Intendi dire portare a compimento la propria vita?
«Al di là delle contraddizioni e difficoltà che visse, realizzò una sua idea di armonia. Delle quattro cose importanti che aveva indicato, ne mancava una: Venezia. Ma la città fu lo sfondo, la linfa e la radice. L’acqua e il cielo, gli elementi che gli davano forza e con i quali si identificava».