la Repubblica, 22 settembre 2024
La silicon Valley guarda a destra
Al numero 367 di Addison Avenue, alzandosi in punta di piedi oltre il cancelletto, è ancora possibile vedere il garage con la serranda verde dove due giovani ingegneri, Dave Packard, 25 anni, e Bill Hewlett, 26, fondarono nel 1939 la leggendaria azienda elettronica Hewlett-Packard, ordine dei nomi stabilito dal lancio di una monetina. Dalla casetta piccolo borghese, verandina e imposte color rame, nasce la Silicon Valley, landa della tecnologia digitale che Richard Cohen definisce, nell’“Almanac of American Politics”, “stato d’animo emotivo, non luogo geografico”. A convincere i ragazzi Dave e Bill a lanciare la start up, anche se allora non si usava la formula, fu il professore della Stanford University Frederick Terman, persuaso come il collega Vannevar Bush “che la logica simbolica dello studioso polacco Lukasiewicz creasse il linguaggio per programmare le macchine”, ricordano ancora nell’ateneo della West Coast.
Bush, Terman, Hewlett e Packard non sono però solo scienziati, inventori, uomini di azienda: si sentono cittadini e patrioti. Nel saggio “As we may think”, pubblicato nel 1945 dalla rivista The Atlantic, Bush, formidabile organizzatore del programma atomico Usa e della tecnologia militare, censurato dal film kolossal “Oppenheimer”, anticipa con il “Memex” la rete di internet, perché “nella Seconda guerra mondiale gli scienziati, seppellendo le rivalità per la causa comune, hanno imparato e condiviso, felici di lavorare in team”. Come Bush, Terman elabora per le forze armate il jamming, tecnica per neutralizzare i radar nemici, Hewlett e Packard gli elementi del controspionaggio elettronico.
Se passeggiate, fra gli spruzzi d’acqua di irrigazione per i giardini a rischio siccità e i jogger sudati dalle miglia quotidiane, nelle zone più ricche del Distretto 16, che raccoglie i voti di buona parte di Silicon Valley per la Camera dei Deputati, non riconoscerete purtroppo la passione civile e nazionale, “Causa comune” nel 1945, quando il garage di Addison Avenue ferveva di progetti. I repubblicani moderati sono in via d’estinzione, nel 2012 Mitt Romney ottenne il 29% dei voti contro Barack Obama, Donald Trump scese al 22% contro il democratico Joe Biden, che con il 75% toccò il record a Silicon Valley.
Se però prendiamo il microscopio dei dati, e studiamo che aria tira dietro le ville dei ricchi in collina, a Woodside, a Los Altos Hills, vista a picco sulla baia di San Francisco, oltre il buon senso progressista dei residenti celebrati, Sundar Pichai, capo di Alphabet, Sergey Brin, fondatore di Google, Jensen Huang, pioniere di microchip e software “intelligenti” di Nvidia, Jerry Yang di Yahoo, si fiutano umori segreti, diversi e pericolosi negli ultimi 50 giorni di campagna elettorale fra l’ex presidente repubblicano Trump, sfuggito d’un soffio a due attentati, e la vicepresidente democratica Kamala Harris, bersaglio di una violentissima campagna di disinformazione.
Elon Musk, patron delle auto elettriche Tesla, del progetto spaziale SpaceX e troll accanito sulla piattaforma social X, di cui è proprietario, impugna la paura scrivendo “Come mai non sparano anche a Biden e Kamala?”, salvo cancellare la provocazione, dopo che milioni di utenti l’hanno condivisa. È però Peter Thiel, miliardario digitale via PayPal e Palantir, a dettare il Manifesto Politico della Silicon Valley Oligarchica, già nel 2009: “Non credo che libertà e democrazia siano compatibili… perché i sussidi e l’assistenza concessi ai poveri e il voto alle donne, gruppi ostili in modo pregiudiziale alle idee libertarie, rendono impossibile la democrazia capitalista”.
Thiel è esplicito nell’esporre il progetto dei reazionari tecnologici: il concetto della Rivoluzione Francese, un cittadino un voto, è obsoleto, perché la Rivoluzione Tecnologica trionfi serve un’oligarchia, dove maschi, bianchi, imprenditori coordinino la vita dei sudditi consumatori, senza che elezioni, giornalisti, tribunali, mercato rallentino con il loro fracasso burocratico l’Olimpo Tech. Monarchia Online, Re digitale, ecco la strada.
Delfino prescelto è J.D. Vance, nominato vicepresidente per il Grand Old Party repubblicano da Trump, collaboratore di Thiel che gli finanzia le campagne elettorali e portavoce del piano tecnocratico-politico. Ian Ward, data analyst del blog Politico, ricostruisce l’albero genealogico della Nuova Destra: “Thiel propugna che le élite digitali non debbano sprecar tempo nella concorrenza commerciale, ma governare il Paese ed entrare nel futuro, predicando “Sognavamo automobili capaci di volare, non social media rissosi”“.
L’avvento della democrazia digitale è preconizzato da Curtis Yarvin, capelli lunghi sulle spalle, ex informatico, cattolico di ultra-destra, guru adorato da Vance e capace di influenzare Trump, da sempre diffidente di idee e filosofie, ma formidabile nell’adottare slogan vincenti sul mercato. Yarvin, senza alzare la voce, detta lezioni online: “Io non credo al progresso, la Storia non avanza come pensavano i liberali nell’Ottocento… Qualcuno ci accusa di propugnare l’oligarchia, ma guardate l’America del XXI secolo, i laureati delle università Ivy League, le scuole top, governano da generazioni, pensando al potere e non al popolo: gli Stati Uniti d’America devono trasformarsi in una start up, governata da un Amministratore Delegato Nazionale a Washington, Dittatore se volete, un Re che ripulisca il Paese, come il programmatore ripulisce il software dai bug, gli errori”.
Squadrismo digitale
Colpo di stato online? Manie da complottisti retrò con eccesso di tablet intorno? Eppure, nella democratica California e nella politicamente corretta Silicon Valley, le reclute sono tante e influenti. Think tank di riferimento è il Claremont Institute, fondato nei sobborghi di Los Angeles da un gruppo di fanatici seguaci del filosofo conservatore tedesco-americano Leo Strauss. I dossier del Claremont, in prima linea per Trump e Vance, concludono che le elezioni del 2020 sono state rubate da Biden con i brogli e che la rivolta del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill e il tentativo di linciaggio del vicepresidente Mike Pence e della Speaker della Camera Nancy Pelosi, siano “la seconda rivoluzione americana”, non nascondendo intenzioni eversive nel pamphlet “Project 2025”, vergato in parallelo con Heritage Foundation. “La lunga marcia del marxismo culturale nelle istituzioni americane ha vinto. Il governo federale a Washington è un Moloch in armi contro i cittadini americani e i valori tradizionali, con libertà e diritti, sono assediati come mai nella storia”, è la sintesi che, deformando le massime dello scettico Strauss, scomparso nel 1973, accende la destra-tech a stelle e strisce.
Dal 1968, anno in cui i campus in California marciavano per la pace in Vietnam con i figli dei fiori della ballata di Scott McKenzie a San Francisco, i repubblicani hanno custodito la Casa Bianca per 32 anni, via Nixon, Ford, Reagan, Bush padre e figlio e Trump, contro i 24 dei democratici Carter, Clinton, Obama e Biden, nominando 21 giudici della Corte Suprema contro appena 8 dei democratici. Come si può allora parlare di “marxismo culturale” dilagante, l’epiteto che Trump riserva alla stessa Harris?
È in realtà l’egemonia culturale dei progressisti a spaventare la destra estrema, disagio personale e shock dell’immaginario collettivo analogo a quello che scuote i sovranisti in Italia e in Europa, leggenda urbana che la fine della fede religiosa, lo spettro del movimento woke, caricaturato a rogo dell’Inquisizione, le norme ecologiche, l’emigrazione, i diritti di gay e minoranze, il multiculturalismo globale implichino l’apocalittica “Fine della Civiltà Occidentale”.
A Silicon Valley tanti giurano che Socrate, Gesù, il Rinascimento, l’Illuminismo e il liberalismo, Hegel e Jefferson, il canone greco-romano di cui Oswald Spengler aveva vaticinato il tramonto nel 1918, stiano per essere censurati in radice, con la piazza in pugno all’anarchia e alla rivolta delle gang Black Lives Matter che abbatte “monumenti patrimonio storico dell’umanità”, dedicati invece ai leader razzisti della Guerra di Secessione e ai capi del Ku Klux Klan assassino.
A poche ore dal primo attentato a Trump, con il cadavere del killer Thomas Crooks ancora all’obitorio della polizia di Butler per l’autopsia di rito, David Sacks, miliardario dei fondi di investimento a San Francisco e filorusso antiucraino, denuncia “voi di sinistra gli avete armato la mano”, indicando il mandante in Reid Hoffman, finanziere degli investimenti in tecnologie ostile ai repubblicani che sovvenziona la Harris con 10 milioni di dollari e paga i siti che attaccano l’ex presidente per stupro e molestie sessuali. Musk raddoppia il carico: “È il loro desiderio di morte che si realizza” contro Trump. Il magnate Timothy Mellon, erede della dinastia capitalista, riempie le casse repubblicane di fondi bofonchiando agro: “A Yale ho studiato solo sbobba di sinistra a favore di tasse e welfare state”.
La cricca di PayPal
Erin Griffith, che da anni segue la politica della Valle, non ha dubbi: “Esplode la Mafia PayPal, il gruppo di giovani arricchitosi con i micropagamenti online, si spacca sulla politica, dopo essersi coperta a vicenda in Borsa”. Con Trump si allineano Thiel, Sacks, Musk; con Harris Hoffman e Roger McNamee, altro investitore in California, che parla da comparsa del Padrino di Coppola: “La mafia tecnologica non aveva il suo codice di condotta solo a Pay Pal, l’omertà in stile vecchia Sicilia copriva l’intera Silicon Valley, ci si accapigliava in riunione, via zoom, su WhatsApp, mai in pubblico. La politica ha rotto il silenzio”.
McNamee attacca Marc Andreessen e Ben Horowitz, che stanno accumulando fondi per Trump, “i vostri valori sono antidemocratici”, rompendo la solidarietà di 25 anni di lavoro comune, e la replica è sferzante: “Davvero Roger? Ci colpisci alle spalle in un post su twitter?”. Fuori dalla mischia resta il fondatore di Meta-Facebook Mark Zuckerberg, salvo elogiare Trump per il coraggio dopo il primo attentato, ma il leader repubblicano non si accontenta con la prudenza di Don Abbondio. E quando apprende che dal social media sono stati eliminati contenuti a richiesta della Casa Bianca reagisce sanguigno: “Zuckerberg? Lo mando all’ergastolo!”.
La Silicon Valley di destra ha una sua biblioteca ormai classica, “The Contrarian” biografia di Thiel firmata da Max Chafkin, “sempre schierarsi contro lo Spirito del Tempo”, “The Benedict Option” dello scrittore cattolico Rod Dreher, “oggi regna la Barbarie post-cristiana, i fedeli sono ciechi, le chiese in ginocchio, i politici incapaci di spiritualità. Serve tornare alla linea di Condotta di San Benedetto, secondo la Scrittura e i padri della Chiesa antica, per esiliarci dalla cultura dominante e resisterle”. Thiel e Sacks, nel 1995, hanno firmato il pamphlet “The diversity myth”, in difesa dell’Occidente contro “il multiculturalismo”, chiarendo che “il razzismo non è un problema fra i giovani in America”. La scrittrice ventiseienne Honor Levy, autrice dei racconti mistico-social di “My First Book”, spiega solerte che “destra e sinistra non esistono, siamo una generazione di libertini a oltranza, le ragazze si mettono alle feste in testa il cappello rosso Make America Great Again di Trump per darsi un tono, giocano a fare le Leni Riefenstahl”, l’artista nazista che, con video e foto sulle Olimpiadi 1936 a Berlino creò il culto del corpo ariano sotto Adolf Hitler.
Come si migri, civettando ai party downtown, dalla casta etica monastica di San Benedetto alla sensualità crudele del fascismo militante di Riefenstahl, è difficile da comprendere fuori da questa comunità dove i ricchi dettano le regole con i soldi, i tecnocrati regolano la comunicazione con software e AI, una corte dei miracoli di blogger, influencer, attivisti, perdigiorno, tiratardi, data analysts, letterati a spasso, fluttua senza sosta da sinistra a destra, mendicando ingaggi, identità, fama effimera. “Il passato con le sue noie, l’antifascismo, la guerra contro Hitler, l’Olocausto, la difesa delle democrazie è obsoleto, come dire “riavvolgo il nastro della videocassetta”, “hai un gettone per il telefono?”, “mi passi la carta stradale?”“, scrive un utente malmostoso della comunità Reddit, scoprendo il baratro. Il critico progressista Timothy Snider si amareggia: “Rileggi la Costituzione, da nessuna parte c’è scritto che un oligarca sudafricano, Musk, debba foraggiare il candidato vicepresidente, Vance, a libro paga del dittatore russo, Putin”.
I figli prediletti dell’Apartheid
E il columnist del Financial Times Simon Kuper, figlio di genitori sudafricani, nota che Thiel, Sacks, Musk e il fondatore della setta satanista dei complottisti QAnon, Paul Furber, hanno un background comune: bianchi, cinquantenni, educati e cresciuti nel Sud Africa dell’apartheid, che imprigionava Nelson Mandela e permetteva loro di vivere nel benessere e nel privilegio. I compagni di Thiel a Stanford lo ricordano elogiare la segregazione razziale, lui nega, Kuper nota nel quartetto l’idea radicata che non sia la povertà o la segregazione a creare violenza sociale, ma “la natura”, con bianchi e neri segnati dal Fato e dal Dna, e costretti a esistere nella separazione eterna, pena “lo stupro e la sodomia delle donne bianche” di cui Musk sragiona online.
La transizione alla politica digitale manda la Storia in Game Over, esaurisce le vite precedenti, il VideoGame XXI Secolo ci fa ripartire da capo, ChatGPT e Intelligenza Artificiale riscrivono il passato. Tucker Carlson, ex anchorman della rete di destra Fox, cacciato per le menzogne sulle elezioni 2020, costate al clan dei Murdoch 773 milioni di multa a favore dell’azienda di macchine elettorali Dominion, è la voce dell’amnesia americana, dall’intervista servile a Vladimir Putin, ai colloqui affettuosi con il neonazista Darryl Cooper. Carlson, 55 anni, è cresciuto qui a San Francisco, in una famiglia bene, voleva fare l’agente della Cia, non lo han preso – “diffidiamo dai clown” ridacchia un dirigente dell’intelligence Usa-, e allora suo padre Richard, collaboratore del presidente Reagan, gli disse “va nel giornalismo, là riesce ad entrare chiunque”, qualunquismo facilone che lo aiuta in carriera.
Carlson definisce Cooper “il migliore e più onesto storico americano”, e gli Annali Trumpiani stilati dalla coppia farebbero impallidire l’establishment tradizionale, il kennedyano Schlesinger, il critico dei media Lippman, la studiosa di strategia Wohlstetter. “Hitler non ha colpa per la Seconda guerra mondiale, il male vien tutto dal premier inglese Churchill”, sdottoreggia Cooper con l’assenso di Carlson, citando il saggio del consigliere di Reagan Pat Buchanan, “Churchill, Hitler and the Unnecessary War”, come fonte del revisionismo filonazista. L’influencer trumpiana Candance Owens assicura che “Israele prepara l’arsenale per l’Olocausto di noi cristiani”, argomento caro a Nick Fuentes, negazionista dei crimini dell’Asse che Trump invita a pranzo nella villa di Mar-a-Lago.
Fuentes, 26 anni, si è visto chiudere il canale YouTube per antisemitismo, milita nel movimento misogino Incel, “le donne sono troppo libere, ci obbligano al celibato forzoso”, chiama alla “guerra santa” contro gli ebrei, partecipa alla rivolta a Capitol Hill del 6 gennaio, “giustiziamo i parlamentari che approvano la vittoria di Biden”, fino alla cena con Trump in Florida, con il rapper Kanye West, e alla fama nazionale. Le donazioni alla rete di Fuentes arrivano in bitcoin, criptovaluta digitale: la più cospicua nel 2020 per 13,5 bitcoin, al tempo 670.000 dollari. Nei siti oscuri del Deep Web si mormora che la cifra fosse accompagnata dalla lettera di suicidio del donatore, Fuentes non ha mai commentato.
Le valute digitali, l’economia sottratta ai banchieri della Federal Reserve a Washington e Wall Street a New York, ossessionano la destra tech, con Trump a proclamare “se rieletto creerò una riserva nazionale in bitcoin, il governo di Biden viola la regola “mai vendere valuta digitale” e io la metterò in una legge, nessun bitcoin pubblico tornerà sul mercato”. Gli Stati Uniti possiedono 210.000 bitcoin, per lo più sequestrati a hacker criminali, cifra dal valore di 14 miliardi di dollari. Se il progetto di Trump passasse, con la senatrice repubblicana Cynthia Lummis a proporre una cassaforte di un milione di bitcoin, la valuta digitale si rafforzerebbe alle stelle, rivalutando il portfolio di tanti cittadini. “Contro l’inflazione serve a poco – scherza l’economista di Georgetown University James Angel -. Per convincere a votare Trump chi possiede bitcoin è una buona idea!”.
BlueAnon, specchio sinistro
Se il caravanserraglio della nuova destra online impressiona, basta girare la rosa dei venti web per scoprire, senza troppa sorpresa, come anche il discorso politico di sinistra e progressisti vada in turbolenza sui social media, scosso da maestrali di disinformazione e di intolleranza. BlueAnon è un movimento antitrumpiano che, nominato in contrasto con QAnon, ne adotta cliché e bugie pur di contrastare i repubblicani. Dmitri Mehlhorn, braccio destro del finanziatore di Kamala Harris Reid Hoffman, commenta il primo attentato a Trump, in luglio: “Considerate la possibilità, che suona assurda, lontana e orribile in America, ma che è comune nel mondo, che la “sparatoria” sia stata organizzata, e forse sceneggiata, da Trump, per avere le foto e il sostegno dei militanti”.
La dichiarazione su BlueAnon di Mehlhorn è un cocktail di ignoranza balistica – nessun cecchino a quella distanza, con un’arma da guerra, può sfiorare l’orecchio del bersaglio senza rischiare di centrarlo nel cranio – malafede politica e autogol comunicativo, costringendolo a un carosello di smentite. I militanti BlueAnon giurano che una cabala di trumpiani, ricchi e armati, abbia prima costretto al passo d’addio Biden, minacciando ancora da presso Harris.
Nei siti locali il dibattito recita “Biden sembrava demente nel faccia a faccia con Trump perché lo han drogato”, “L’attore George Clooney ha chiesto le dimissioni di Biden nell’editoriale sul New York Times per vendicarsi dell’appoggio a Israele nella guerra contro Hamas a Gaza”, “La rete Abc ha truccato la voce di Biden con l’Intelligenza Artificiale per farlo apparire senile nell’intervista con Stephanopoulos”. Il giurista Seth Abramson, laureato a Harvard, docente universitario e con un seguito di 900.000 account su X, mette in allarme “contro il colpo di stato dei media per ribaltare Biden”. Molti liberal, sdegnati dalla disinformazione filorussa che Musk lascia pascolare su X, migrano sul social Threads, dove è luogo comune credere che “Deep State, lo stato profondo, ha fatto fuori Biden fingendo soffra di Alzheimer”.
Il saggista Mike Rotschild, autore di uno studio su QAnon, spiega che la “mentalità manichea, Bene contro Male, Noi contro Tutti, il nostro Credo avverso alle loro Bugie”, fluisca da destra a sinistra nella campagna elettorale più radicale del secolo, “Trump è il male assoluto, dunque ogni strumento è lecito per fermarlo, e chi lo vota è nemico da atterrare”. L’influencer democratico @LakotaMain1, forte di una comunità di mezzo milione di persone su X, ritiene “ovvio che Trump abbia sacrificato da vittime i militanti, durante l’attentato sceneggiato, con tanto di finto sangue e bandiera Usa capovolta: non ci cascate!”. Un sondaggio Morning Consult stima che un terzo degli elettori democratici – 81.283.501 nel 2020, quindi 27 milioni di persone – crede che gli attacchi contro Trump siano un trucco della sua campagna.
Il deputato democratico Jamaal Bowman arringa un comizio pro palestinese: “Non ci sono prove che miliziani di Hamas abbiamo stuprato donne ebree il 7 ottobre, è propaganda di Israele”, pagando l’affermazione con la sconfitta alle primarie del partito malgrado il sostegno del senatore Sanders e della deputata Ocasio-Cortez, ma lasciando una scia velenosa online. Dalla trincea trumpiana il tiro è invertito a ogni ora, sono gli “antifa” e Kamala Harris i capi del terrorismo domestico.
Un presente distopico
Hewlett e Packard e i loro maestri Terman e Bush, non avrebbero immaginato che “lo stato d’animo” Silicon Valley diventasse landa di paura e intolleranza. “Tecnofascisti” e “Tecnocomunisti” combattono le loro crociate e non attendetevi tregue, prima o dopo il 5 novembre, chiunque vinca. Non a caso Trump arruola nei giorni finali della corsa Laura Loomer, 31 anni, plasmata dalla chirurgia estetica, influencer maestra nei video registrati di nascosto (un diplomatico europeo la definisce ironicamente “Maria Rosaria Boccia in Florida” in riferimento agli scandali italiani), stratega dell’alzare il tono al parossismo: “L’attentato alle Torri Gemelle del 2001 fu organizzato in casa nostra”, forse dalla Cia; “l’Islam è un cancro, dobbiamo reclutare squadre di suprematisti bianchi”, “se eleggono Harris, Washington puzzerà di curry e spezie indiane”; “i democratici vogliono camere a gas per gli ebrei”; “dopo il voto organizzeremo plotoni di esecuzione per democratici e marxisti ebrei”; “ha ragione Kanye West, Hitler non aveva colpe, peggio di lui i liberal-fascisti” e via farneticando.
Due senatori trumpiani, Graham e Tillis ammoniscono, “Laura Loomer è razzista, ci farà perdere voti”, ma Trump non vuole ascoltarli, secondo il gossip, da New York a San Francisco, perché sedotto dalla sua avvenenza, secondo le vecchie volpi perché cosciente del lieve ritardo nei sondaggi e disposto a incendiare l’opinione pubblica pur di rimontare. Chiunque abbia ragione poco importa, i 50 giorni di violenza, speriamo solo verbale, che l’America ha davanti parlano di noi, Europa e Italia, in una politica dove la dialettica superstite è Amico-Nemico e il web, sognato per il dialogo, serve a raccogliere voti, consensi, potere, lasciandosi dietro la terra bruciata dell’odio che non si redime, con democrazia e Costituzione a cedere governo, potere e legittimità al Dittatore Digitale.