la Repubblica, 22 settembre 2024
Dietro l’omicidio Dalla Chiesa c’era Andreotti?
Belzebù torna ad aleggiare sui delitti eccellenti e le trame oscure. La figura politica di Giulio Andreotti viene ripescata questa volta accanto al delitto del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. A riprendere per la gobba il Divo deceduto da undici anni è la figlia del generale, Rita Dalla Chiesa, oggi parlamentare di Forza Italia. Ospite della trasmissione Tango, ammette che c’è un «politico» dietro l’agguato: «Lo uccisero per fargli un favore». Non pronuncia il nome che la conduttrice Luisella Costamagna chiede di fare, perché «c’è una famiglia di quel politico, preferisco non farlo». Ma il riferimento è chiaro, perché cita una frase che è sempre stata attribuita ad Andreotti: «Disse a mio padre che chi si metteva contro la sua corrente era un uomo morto».
Di un incontro fra il sette volte presidente del Consiglio e Dalla Chiesa, il prefetto ha lasciato traccia nel suo diario, circostanza confermata ai giudici dal figlio Nando, il quale riporta la frase del padre: «Sono stato da Andreotti, gli ho detto quello che so dei suoi in Sicilia ed è sbiancato in volto».
Di ciò si trova un preciso riscontro negli appunti del generale in cui scrive che Andreotti era «indirettamente interessato al problema proprio per le sue presenze elettorali in Sicilia» e non si fa scrupolo di dire che non avrebbe usato alcun riguardo al suo grande elettorato.
Le affermazioni di Rita Dalla Chiesa ci riportano al 1982, quando il generale dopo aver sconfitto il terrorismo viene inviato a Palermo a contrastare la mafia.
Il generale dopo circa un mese inizia a prendere appunti su un diario. Perché gli avevano garantito ampi poteri, uomini e mezzi, gli avevano assicurato che da Roma non lo avrebbero abbandonato in quel suo difficile compito, ma al generale bastano trenta giorni per capire che le cose non stanno così.
Le promesse non vengono mantenute, gli amici nei partiti non si fanno sentire più. Il generale è solo. E poi c’è la città. Palermo accoglie Dalla Chiesa con sentimenti diversi: da una parte la popolazione che vede nel generale un uomo che può riuscire finalmente a penetrare i santuari mafiosi; dall’altra gli ambienti politici ed economici che, viceversa, guardano con malcelato fastidio ed evidente diffidenza “il piemontese” sbarcato a Palermo. È proprio in questo momento che Dalla Chiesa prende carta e penna e comincia ad annotarsi le prime considerazioni, i primi sospetti, i primi sfoghi, un bilancio amaro di quel mese di vita a Palermo. «Promesse, garanzie, sostegni, sono tutte cose che lasciano e lasceranno il tempo che trovano» scrive.
Giorno dopo giorno Dalla Chiesa seguita a prendere brevi appunti sulla situazione, sulle indagini da compiere, ad annotarsi tracce che conducono a personaggi insospettabili. Non sa (ma forse lo teme) che queste sue note segrete sono destinate, in breve, a diventare il suo testamento anche politico. Un documento agghiacciante per le accuse che, un «fedele servitore dello Stato» come Dalla Chiesa, riserva alla classe politica che lo ha catapultato a Palermo.
C’è preoccupazione nelle altre note del prefetto: «Io che sono certamente il depositario, più informato, di tutte le vicende di un passato non lontano, mi trovo ad essere richiesto di un compito davvero improbo, e perché no, anche pericoloso!» Poi, subito, lo sfogo, durissimo, contro chi gli aveva promesso aiuti e invece l’ha abbandonato: «Promesse, garanzia, sono tutte cose che lasciano e lasceranno il tempo che trovano. La verità è che in poche ore – cinque o sei – sono stato catapultato da una cerimonia a me cara (quella di saluto avvenuta all’Arma dei carabinieri ndr) ad un ambiente infido, ricco di mistero e di una lotta che possono anche esaltarmi, ma senza nessuno intorno... Mi sono trovato d’un tratto in... casa d’altri e in un ambiente che da un lato attende da me miracoli e dall’altro va maledicendo la mia destinazione e il mio arrivo». Il generale mette sotto accusa direttamente lo Stato, il governo, quanti all’epoca dovevano sconfiggere il potere mafioso, ma non lo hanno fatto. Rispetto ai propositi del neoprefetto di spezzare l’intreccio tra Cosa nostra, la politica e il sistema degli appalti, ha dovuto fare i conti con ostilità politiche (la Dc in testa) e ambientali che hanno armato la mano dei sicari mafiosi. Come si legge nella sentenza dalla «coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». A farlo fuori quindi non fu solo la mafia. Cosa Nostra sarebbe stato il braccio operativo di un disegno che mirava a fermare quel «salto di qualità» di cui ha parlato due anni fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricordando la figura di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Una strage su cui restano «ampie zone d’ombra».