La Stampa, 21 settembre 2024
Intervista a Gipi, disegnatore
Gipi, al secolo Gianni Pacinotti, è uno degli autori più interessanti del panorama fumettistico italiano: le sue graphic novel, che scrive e disegna (in certi casi più corretto dire che dipinge), sono sospese tra il ritratto sociale e una sussurrata confessione autobiografica. La loro complessità gli ha meritato di essere incluso nella cinquina dei finalisti dello Strega 2014 con Unastoria: la prima volta per un fumetto. La sua carriera non è però solo questo: nel 2011 ha debuttato come regista con L’ultimo terrestre, cui hanno fatto seguito nel 2012 il mediometraggio Smettere di fumare fumando presentato al Tff e nel 2018 Il ragazzo più felice del mondo. Il suo ultimo lavoro, Stacy, edito da Coconino, è stato una svolta: in bianco e nero, a tratti sgradevole. Si è detto che con quest’opera Gipi sia «diventato cattivo».Pisano, ha scelto (per amore) Roma, ma vive in una zona periferica della Capitale, il Divin Amore, che molto ama, in una casa che dice di «avere ereditato per via matrimoniale» e che gli permette una vita appartata, un po’ da orso, lontano dai clamori della mondanità e «dalla frequentazione del mio ambiente». Che gli permette «di stare con la testa nel mio lavoro, dare spazio a quel grillo che mi ispira sempre nuove storie. A sessant’anni compiuti so che è questa la mia forma di vita».Dopo Stacy è già al lavoro su altro?«Ho il computer pieno di spunti e storie. Un paio, commedie, forse per il cinema più una adatta a una serie. Ma soprattutto sto lavorando a un western a colori, per i miei standard un’opera monumentale che non so neppure se riuscirò a finire: l’ultima parte è più difficile del previsto».Viene da pensare a Kevin Costner che sta girando una saga western in più capitoli: anche lui non sa se ce la farà a portarla a termine. Ma il suo è un problema di soldi. E per lei?«È strano: non conosco quel mondo, mai stato in America, non conosco i panorami in cui è immerso, ma quel contesto era giusto per raccontare una sorta di duello tra persone dalle attitudini opposte. Il personaggio principale è un condannato a morte affetto dalla malattia di raccontare: vive in un carcere tra delinquenti che sono ai suoi antipodi immerso in questa sua ossessione invece di pensare a godersi i suoi ultimi giorni, vivendoli».Come è arrivato a questa storia?«Ci sono, come sempre, seppure molto sfumati, riferimenti a me: l’interrogativo se abbia fatto bene a perseguire la strada che ho scelto. Invidio chi non ha questa specie di difetto di guardare la vita come un qualcosa da riprodurre ma semplicemente vivendola. Il mio dubbio è: ma in questo modo non se ne perdono dei pezzi?».Ma, come diceva prima, arrivato ai 60 non si cambia più.«Il mio lavoro è molto noioso. Insomma: lo è la fase che ti costringe a un tavolo da disegno per giorni e giorni (non uso il computer, ma lavoro ancora con penna e china). Però la possibilità di riflettere su di te, cambia la prospettiva: è fondamentale avere una ragione. E per me è interrogarmi su di me, estrarre ciò che ho dentro per arrivare a capire aspetti di me che – paradossalmente – senza quel lavoro di scavo non riuscirei a mettere in chiaro. Affidarmi a un personaggio è il mio modo di fare uscire pensieri utili a migliorarmi».Quasi sedute psicoanalitiche?«Quasi. Personalmente non le ho praticate. Faccio da solo... Certe cose sono davvero catartiche».Stacy è molto diverso dagli altri suoi lavori.«Volevo tagliare con certi miei aspetti passati, come la ricerca dell’applauso, dell’approvazione, anche mettendo a nudo aspetti molto privati della mia storia. Quando sì, in passato era molto diverso ciò che facevo. Vedi La mia vita disegnata male: molto autobiografico, fin dal titolo. Ma era il 2007, era un’altra era geologica senza i social. Parlavo di me per far ridere, al centro c’era l’aspetto ridicolo della mia vita anche nei momenti più drammatici (lo considero un atteggiamento indispensabile per vivere meglio). La terra dei figli, libro distopico in un mondo post apocalittico, invece è quello del distacco: io non c’ero, solo un po’ la mia famiglia, ma molto nascosta».In Stacy attacca i social: il protagonista che se ne fa travolgere. Lei stesso ne è uscito. Come hanno cambiato la sua narrazione?«Tutti si raccontano anche se non hanno nulla da dire. Restarci e parlarne male mi pareva ipocrita».Lei presiede una squadra di calcio di ragazzi rom e ha girato un video in un campo rom per Manuel Agnelli, Severodonetsk. Come è arrivato a loro?«È come una famiglia allargata. Io e mia moglie siamo due adulti senza figli, eppure sono nonno e padre. Davanti a un supermercato ho incontrato una ragazza rom che chiedeva l’elemosina: non avevo spicci, l’abbiamo invitata a entrare e prendere quello che le serviva. Da allora lei, il suo compagno e la loro bimba sono entrati nella nostra vita. Offrire una possibilità per cambiare vita è quello che tento e in cui credo».