Corriere della Sera, 21 settembre 2024
Intervista a Fortunato Ortombina, sovrintendente alla Scala
Milano – Dopo tre sovrintendenti stranieri (Stéphane Lissner, Alexander Pereira e Dominique Meyer) tornerà alla Scala un italiano, Fortunato Ortombina, nato a Mantova nel 1960, studi al Conservatorio Boito e laurea in Lettere a Parma, dove ha lavorato al Teatro Regio e all’Istituto nazionale di studi verdiani. Ortombina ha lavorato alla Scala dal 2003 al 2007 come coordinatore artistico. Ha lasciato Milano per diventare direttore artistico e poi sovrintendente della Fenice di Venezia. Nel 2025, prenderà il posto di Meyer.
«Ringrazio sindaco e Cda per la fiducia e saluto i lavoratori, che incontrerò presto. Mi hanno preceduto illustri personalità – premette Ortombina – Meyer ha fatto un grande lavoro con Chailly e Legris e non so quale teatro del mondo ha in cartellone, in quattro mesi, direttori come Petrenko, Chailly, Gatti e Thielemann, sebbene quest’ultimo abbia dovuto cancellare il Ring, che resta un grande progetto. Il 7 dicembre il teatro metterà in scena l’opera con la quale Verdi tornò alla Scala nel 1869 dopo 25 anni [La forza del destino, ndr], un evento importante».
Partiamo dalla legge sul limite di 70 anni per i sovrintendenti…
«Sperimenterò due esperienze pressoché inedite: sono un sovrintendente designato venuto realmente in anticipo e trovo intrigante essere il primo alla Scala con i giorni contati, perché anch’io farò un solo mandato. Si potrebbe dire che questa legge precluda di servirsi dell’esperienza, ma dove sono i giovani per fare questo mestiere? Il fatto di avere un solo mandato non impedirà di pensare al futuro anche più lontano della Scala».
Si procederà ripristinando direttore artistico e generale oltreché musicale?
«Fino a che c’è Meyer la struttura non cambia. Se qualcuno mi viene a cercare pensando che non faccia il direttore artistico ho dubbi che abbiano chiamato la persona giusta. Per ora, il problema non si pone. Il direttore generale è stato abolito e le sue funzioni spalmate. Quanto al direttore musicale è argomento prematuro, ne parleremo quando sarò sovrintendente insediato. Giusto guardare avanti, ma ci vuole rispetto per chi sta lavorando e Chailly deve ancora dirigere tanta musica. Tuttavia, non intendo avallare scelte senza un contatto diretto con l’orchestra, il coro e il teatro. Più urgente la scelta del direttore del corpo di ballo».
Veniamo ai programmi: repertorio, sperimentazione, direttori...
«Non si può trascurare nessuna direzione e si deve tenere conto dell’attività della Filarmonica. La Scala deve fare sempre ricerca: in questa stagione c’è un’opera sul Nome della Rosa di Umberto Eco. La sperimentazione non è solo musicale, poiché la musica è un mezzo per arrivare alla gente. La Scala deve avere un’ampia programmazione, dal Seicento a oggi. E mai dimenticare la curiosità del pubblico: c’è del repertorio ancora da esplorare».
Come essere un teatro internazionale?
«La Scala è sempre stata internazionale e, alle volte, il più forte propulsore della tua proiezione internazionale è l’identità».
Si dibatte sulle regie sperimentali, che qui non piacciono a tutti.
«L’opera più rappresentata alla Scala è Rigoletto, ma è nato a Venezia perché serviva un luogo aperto all’innovazione. Penso che bisogna tornare all’attenzione alla recitazione, anche perché il pubblico è abituato a guardare i primi piani in tv. La Scala può fare tutto, ma sul melodramma richiede un supplemento di attenzione. Bisogna credere nella sperimentazione e rischiare. A Venezia la Traviata di Robert Carsen del 2004 fu buata: rifatta con Myung-Whun Chung la stiamo rappresentando con successo da vent’anni. Di fronte alla novità bisogna dare al pubblico tempo per assimilare e sostenere scelte coraggiose. Il primato nel melodramma non significa essere autarchici».
Gli spettacoli rischiano di essere pensati per la tv?
«È capitato, ma quando si lavora è così forte l’energia del progetto che si è molto concentrati sul teatro. Credo che la tv e i nuovi mezzi accendano la fantasia di registi e scenografi».
Lei è uno studioso di Verdi, resta il più grande?
«La mia passione per Verdi è sempre cresciuta. La sua opera si può riaffrontare ciclicamente: la funzione sociale del teatro d’opera è che ciascuno vive nel proprio tempo e ogni volta un’opera».